Paola Cortellesi con pacata leggerezza dà vita a una commedia nelle sue corde, azzeccando, da attrice, le parti di ogni interprete e realizzando un'opera piacevole e misurata, che vira sulla tematica femminista un'epoca e una realtà in cui le donne non avevano diritto nemmeno di esprimere un'opinione senza essere tacciate di presunzione.
In un bianco e nero che si sposa con l'ambientazione della storia nell'immediato dopoguerra, la regista romana, all'esordio dietro la mdp, racconta una vicenda familiare come tante - strizzando l'occhio al neorealismo, ma in versione inevitabilmente olografica e in un film che non può e non vuole essere realistico - che si innesta sulla storia d'Italia da manuale, quella del referendum tra Repubblica e Monarchia (trailer).
Un film politico ma attento a non disturbare troppo, che nel raccontare e colpire il patriarcato allora imperante, in fondo celebra quel voto con l'invito alle elettrici della giornalista Anna Garofalo, che oggi suona non certo rivoluzionario e vagamente sessista: "Stringiamo le schede come lettere d'amore".
La narrazione si dipana dal 14 maggio al 2 e 3 giugno 1946, giorni delle votazioni a cui, per la prima volta, partecipò anche l'elettorato femminile, che nel quotidiano invece era costretto a sentirsi ripetere di non parlare, di non esprimersi, di servire e obbedire in silenzio gli uomini. Tre settimane in cui seguiamo la vita della famiglia Santucci, composta da Delia (Paola Cortellesi), Ivano (Valerio Mastandrea) e i loro tre figli, due maschi piccoli e pestiferi e la primogenita, Marcella (Romana Maggiora Vergano), a un passo dal fidanzamento. Con loro, in un appartamento di via Bodoni a Testaccio, vive anche il suocero di Delia, Ottorino (Giorgio Colangeli), un anziano bisbetico allettato più per pigrizia che per malattia, con un passato non irreprensibile, che ora pontifica e lancia strali contro tutti dalla sua camera e che, per la nuora, parafrasa una celebre battuta di Alberto Sordi: "mi' fijo s'è voluto mette a casa un'estranea".
"Stai zitta" è la frase che viene ripetuta più spesso a Delia, che in vari frangenti non riesce a non esprimere la sua opinione, come invece gli uomini di casa vorrebbero. Eppure la donna subisce quotidianamente le percosse del marito, le sue manifeste infedeltà, le angherie del suocero. Marcella, che non ha potuto continuare gli studi oltre le elementari perché femmina, la guarda incredula, non comprende il perché di tutti quei silenzi, perde ogni giorno di più la stima nella madre e si dice convinta di non voler fare la stessa fine: "sei 'na pezza da piedi, nun vali niente, nun conti niente!" le ripete disperata.
Delia ha pochi momenti di vera libertà, ma quelli che ci si avvicinano di più sono le chiacchierate con l'amica fruttivendola Marisa (Emanuela Fanelli) e con un suo vecchio amore, il meccanico Nino (Vinicio Marchioni), nostalgico e romantico, che ancora pensa a lei come donna della sua vita. Con lui, significativamente, Delia ha ancora voglia di giocare e i due, infatti, mangiano cioccolata e si sorridono l'un l'altro con i denti tutti neri, con la stessa leggerezza con cui Pamela Tiffin rifiutava la liquirizia offertale da Nino Manfredi - "grazie, no, nerisce i denti", in Straziami ma di baci saziami (Risi 1968).
Con Ivano, invece, non c'è più nulla di tutto questo - un divertente flashback ci ricorda l'inizio della loro storia -, ma solo doveri e convivenza difficile, nella quale Delia non condivide più niente col marito. La figura di Ivano non è sviluppata come quella della protagonista e il suo ruolo è quello del tipico uomo figlio del patriarcato: canottiera d'ordinanza, insensibile alle esigenze della moglie, violento perché incapace di pensare a ogni pur minimo confronto, gestisce i sensi di colpa successivi ad ogni accesso d'ira con la frase tormentone "ho fatto du' guere", e vede nel possibile matrimonio della figlia solo un'occasione di rivalsa per la propria frustrazione.
Diversi i momenti in cui la regia si fa notare positivamente, a partire dall'inizio, che ci presenta la coppia protagonista mentre parla a letto inquadrandola dallo specchio; alcune "oggettive irreali" che riprendono la scena dall'alto, un bel movimento circolare proprio nella sequenza già descritta tra Delia e Nino, il funzionale montaggio alternato nel finale e soprattutto la resa della violenza di Ivano, burbero e manesco, contro Delia, che viene risolta con gli stilemi del musical.
Attendiamo schiaffi e percosse e ci ritroviamo a guardare due attori che danzano sulle note di Nessuno, grande successo di Mina (1959), reinterpretata dal duo Musica Nuda, composto da Petra Magoni & Ferruccio Spinetti. La canzone non è scelta a caso, e "nessuno ti giuro nessuno, nemmeno il destino ci può separare" è l'ironica beffa per l'assurda idea di irreparabilità connessa al matrimonio di un tempo.
La colonna sonora, che non ha intenzione di seguire l'epoca narrata dal film, è uno dei punti di forza della pellicola - più avanti ci sarà posto per La sera dei miracoli di Lucio Dalla, M'innamoro davvero di Fabio Concato, A bocca chiusa di Daniele Silvestri - e pesca ancora negli anni '50, con Aprite le finestre di Franca Raimondi (1956), che ascoltiamo mentre Delia lo fa veramente all'inizio della giornata, spazzolandosi i capelli a letto, proprio come nell'omologa e famosissima sequenza di Cenerentola (Jackson 1950) - accompagnata da I sogni son desideri -, tanto più che Cortellesi inserisce il dettaglio di un topolino che le passa tra i piedi.Delia, a ben guardare, è una Cinderella nella Roma dell'immediato secondo dopoguerra, in cui le strade sono ancora piene di soldati americani, in cui la gente ha ancora conti in sospeso con quello che è accaduto durante la guerra, e in cui si sbarca il lunario con lo stipendio del pater familias e i piccoli lavori della moglie e dei figli più grandi, facendo la spesa con la tessera. Delia, come l'eroina Disney, veste abiti sdruciti e rammendati, alimentando la vergogna di Marcella, fidanzata con Giulio (Francesco Centorame), primogenito dei Moretti, coppia arricchitasi con la borsa nera durante la guerra e ora titolare di un bar in zona, che li rende un buon partito, nonostante l'antipatia che serpeggia nei loro confronti. Il pranzo domenicale in cui le due famiglie si incontrano "ufficialmente" per il fidanzamento dei figli, è una delle scene madri della commedia.
Sono tanti i momenti in cui C'è ancora domani rimanda al cinema neorealista, pur rifuggendo ogni intento realista. Il soldato afroamericano che ha una forte simpatia per Delia, che incontra quotidianamente nel posto di blocco a ridosso di lungotevere Testaccio, e che, con una divertente gag da commedia degli equivoci, continua a chiamare "Devoannà", non può non far pensare a quello di Paisà (Rossellini 1946). E allo stesso modo, Delia fa le punture in casa di un notaio e per questo si ritrova a vedere interagire una famiglia altoborghese, proprio come il piccolo Bruno interpretato da Enzo Staiola, in Ladri di biciclette (De Sica 1948), guardava con gli occhi di fuori il bambino della famiglia agiata che mangiava le mozzarelle in carrozza (vedi). Eppure in quella casa, dove tutto è economicamente più facile (e si fa colazione con i biscotti Osvego della Gentilini, un'istituzione romana), la moglie viene ugualmente zittita dal marito.
Tra le tante suggestioni cinefile, durante i convenevoli successivi all'improvvisa morte di Ottorino - con Cortellesi e Fanelli che duettano comicamente alla perfezione e la prefica ignota a tutti che prega stile Il Marchese del grillo (Monicelli 1981; vedi) - le frasi di circostanza che in queste occasioni rendono immacolato anche il passato di un uomo con diversi reati alle spalle, come accadeva nella sequenza del funerale di Cosimo, in quel capolavoro assoluto della commedia all'italiana come I soliti ignoti (Monicelli 1958, vedi).
Anche il cortile del grande condominio testaccino in cui vivono i Santucci è uno spaccato della vita del tempo e si nutre di un immaginario a cui il cinema del passato ha contribuito in maniera rilevante. In quello spazio, quasi teatrale, i bambini giocano sempre a pallone; Alvaro (Lele Vannoli) è "lo scemo del villaggio"; e tre donne, in una versione popolare e nostrana delle tre streghe del Macbeth, non fanno altro che spettegolare della vita altrui. La scenografia, curata da Massimiliano Paonessa e Lorenzo Lasi, qua e là arricchisce la scena con marchi storici, cosicché vediamo Delia cucire con una macchina Singer, oppure, quando entra in un bar con Marisa, sulle pareti vediamo appesi dei poster pubblicitari della Cedral Tassoni (l'azienda nata nel 1886, che nel 1956 produrrà la celebre cedrata), e dello Zabov, messo in commercio proprio nel 1946.
Nella speranza (ancora vana) che "te devi trucca' solo pe' mme" o "a lavora' nun ce devi più anna' " - come Giulio dice a Marcella - non siano mai più considerate frasi d'amore ma di controllo e sopruso, e quindi non più pronunciate da un uomo a una donna, C'è ancora domani è una commedia divertente, alla quale non si fa un favore spendendo parole altisonanti come capolavoro. Una pellicola che, tra un sorriso e l'altro, fa riflettere su temi che può solo stimolare ad approfondire e, si spera, che il successo al botteghino vada in questa direzione.
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