sabato 14 dicembre 2024

La stanza accanto (Almodóvar 2024)

Con La stanza accanto Pedro Almodóvar sembra aver affondato il suo cinema in quello di Ingmar Bergman, realizzando un film di grande asciuttezza, lontano dalla passionalità a cui ci ha abituato per decenni, di gran rigore nella messa in scena, chirurgico nella sceneggiatura, ma con la ricchissima e significante gamma cromatica che lo ha sempre contraddistinto. Interpretato da due giganti come Tilda Swinton, perfetta nella sua consueta algida androginia, e la solita, straordinaria Julianne Moore, il cui personaggio ha il nome più cinefilo e svedese che si possa immaginare, Ingrid, la pellicola ha vinto il Leone d'oro di quest'anno ed è il primo lungometraggio girato in lingua inglese da Almodóvar, dopo i corti del 2020, The Human Voice, e del 2023, The Strange Way of Life (trailer).
Il regista spagnolo, dopo Madres paralelas (2021), rimane sulla stessa lunghezza d'onda di denuncia politica e sociale, e come lì aveva puntato il dito contro le difficoltà che le coppie non tradizionali incontrano lungo il loro cammino, stavolta lo fa contro quelle che ostacolano la libertà di scegliere come mettere fine alla propria vita nei casi più estremi, complice un retaggio culturale profondamente religioso.
Il film, libero adattamento del romanzo
Attraverso la vita di Sigrid Nunez (2022), si apre e si mette letteralmente in moto a partire da un fermo immagine monocromatico che dà sulla libreria Rizzoli di New York: da lì colori e movimenti di macchina si srotolano senza soluzione di continuità fino al termine della storia narrata.
In quella libreria, Ingrid (Julianne Moore) sta firmando copie del suo ultimo romanzo per i suoi lettori, quando una sua amica che non vede da tempo, Stella, dopo aver acquistato il libro e averla salutata, le dà la brutta notizia che una loro amica comune, Martha (Tilda Swinton), è malata di un cancro terminale. Quella, per Ingrid, è l'occasione per rivederla dopo anni e, ristabilito un rapporto di cui non sapremo mai perché si è interrotto, si ritroverà ad accompagnarla nel breve tempo rimastole.
Da lì in poi le due donne condivideranno ogni passo, ogni decisione, e soprattutto quella di Martha di porre fine alla propria vita attraverso l'eutanasia, trascorrendo gli ultimi giorni di vita in una villa a ridosso di un bosco, avendo la sua amica nella stanza accanto, quella che dà il titolo al film.
Martha è una fotoreporter, che per anni ha viaggiato come inviata nei territori di guerra. Di questi ricorda in particolar modo il periodo passato a Baghdad e soprattutto la guerra in Bosnia, che considera quella con il popolo più indifeso a cui abbia mai assistito. Ingrid, invece, sappiamo sin da subito che scrive romanzi, ma nel corso della pellicola racconta che sta scrivendo del rapporto tra la pittrice inglese Dora Carrington, vicina al Bloomsbury Group, e la scrittrice Virginia Woolf.
Martha è diversa ed è un diritto esserlo, ribadisce Pedro Almodóvar, che fa dire a Ingrid "ci sono molti nodi di vivere in una tragedia": non vuole più combattere, decide di arrendersi e di farlo a suo modo, senza la figlia, con cui non ha rapporti, e con un'amica, con cui ha condiviso tanto in passato, persino lo stesso uomo, Damian (John Turturro), ancora molto amico di Ingrid e che le fa da complice in questa difficile situazione. Damian è un ambientalista e mette in parallelo l'imminente morte di Martha con il mondo che sta finendo, distrutto dall'uomo.
Ammira la sua ex, perché "sa soffrire senza fare sentire in colpa gli altri", e ricorda che Martha un tempo dimostrava una certa "urgenza del sesso", tanto più che anche per lui allora "un giorno senza sesso era un giorno incompleto". Il sesso come antidoto contro la morte, un indissolubile connubio tra eros e thanatos, che la stessa Martha conferma in un altro momento del film: "penso ancora che il sesso sia il modo migliore per scacciare pensieri di morte".
La donna non vuole posti in cui è stata felice in passato, né che le sono noti in generale. La sua rivendicazione è filosofica, poiché anche se tutti ci insegnano a leggere la lotta contro il cancro come una guerra da combattere, tra la persona e la malattia, tra il bene e il male, non per tutti deve essere così, e anche la voglia di fermarsi e di rinunciare deve essere rispettata.
Nella scena in cui Martha e Ingrid tornano indietro perché Martha ha lasciato nell'appartamento in città la pillola dell'eutanasia, rovistando ovunque, la mdp riprende una scatolina di fiammiferi su cui compare la scritta "still here": un esserci ancora come richiesta di rispetto per le proprie decisioni prese in piena autonomia e lucidamente? Nella casa, inoltre, tra i vari oggetti compaiono un teschio colorato messicano,  la mano di Fatima e l'occhio di Allah, per musulmani ed ebrei simboli religiosi e apotropaici, in grado di allontanare male e malocchio.
L'Almodóvar a cui siamo più abituati viene fuori nel flashback in cui Martha racconta del suo rapporto conflittuale con la figlia Michelle, avuta quando era ancora sedicenne da Fred che, tornato dal Vietnam e attanagliato dalla depressione, non era più quello di cui si era innamorata. L'analessi viene filmata e vediamo la giovane Martha nel tormento di un amore finito, ma che nel momento consolatorio della fine porta alle conseguenze più disgreganti. Resta che oggi Michelle, che non ha mai conosciuto il padre anche perché poi morto in circostanze che hanno confermato ancor di più le sue psicosi, colpevolizza la madre e ha un pessimo rapporto con lei. Il regista spagnolo gira anche la sequenza in cui Fred perde la vita cercando di aiutare qualcuno all'interno di una casa in fiamme, l'unica in cui la mdp, in soggettiva, è in costante e affannato movimento. Il paesaggio è quello tipico della campagna americana e la casa sembra quella de I giorni del cielo (Malick 1978) e di tanti altri film, a cui il regista castigliano (e noi spettatori) deve il suo l'immaginario statunitense.
C'è, come sempre, un po' di Alfred Hitchcock in Almodóvar, e la scelta di fare interpretare a Tilda Swinton anche la figlia di Martha va in questo senso, poiché si entra immediatamente ne La donna che visse due volte (1958) con il suo immancabile tema del doppio. Del maestro del brivido viene riproposto anche un suo tipico movimento di macchina: le due amiche stanno parlando su una panchina di un parco e la mdp le riprende dall'alto con un dolly che poi scende lentamente e le raggiunge con un bel passaggio diagonale dal grande al piccolo.
Altre volte la regia riprende alcune scene dall'alto, in prospettiva zenitale, nella tipica inquadratura cosiddetta "dal punto di vista di Dio", quanto mai azzeccata per un film che tocca argomenti esistenziali come questo.
Ingmar Bergman aleggia sulla pellicola per le già evidenziate caratteristiche di partenza, a cui si aggiungono i dialoghi tra le due protagoniste, serrati, accompagnati da una mdp che non le lascia praticamente mai e che in ogni sequenza si avvicina con lentezza e con inesorabilità ai loro volti. In un caso, poi, la citazione è totale, poiché quando Ingrid si sdraia sul letto, di fianco e dietro Martha, e vediamo la sovrapposizione in profondità dei due visi, le due attrici rimandano inequivocabilmente a Persona (Bergman 1966) e diventano per un attimo Alma/Bibi Andersson ed Elisabeth/Liv Ullmann.
La cinefilia di Almodóvar, però, è anche più esplicita. Martha, che non riesce a leggere nemmeno Faulkner ed Hemingway, né ad ascoltare musica perché la "decentra", guarda con Ingrid vecchi film, tra cui il Buster Keaton de Le sette probabilità (1925) e il John Huston di The Dead (1987), tratto da The Dubliners di James Joyce. Il racconto finale del romanzo (in italiano I morti) è un punto fermo per Martha che lo cita, ma lo è anche per La stanza accanto, che diventa tutt'uno con esso

"La neve cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva lenta sulla palude di Allen e, più a ovest, sulle onde scure e tumultuose dello Shannon. Cadeva anche sopra ogni punto del solitario cimitero sulla collina, dove era sepolto Michael Furey. Si ammucchiava fitta sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del cancelletto, sui roveti spogli. La sua anima si dissolse lentamente nel sonno, mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti"

La sequenza alla stazione di polizia di Lake Hill - la località immaginaria dove, nella finzione, è la villa - permette alla sceneggiatura di citare persino Vagabondaggio erotico, il libro di Roger Lewis sulla storia d'amore tra Richard Burton ed Elizabeth Taylor. A farlo è Ingrid, con un atteggiamento volutamente provocatorio e di rottura, al cospetto di un pressante agente fanatico religioso (Alessandro Nuvola) che sospetta del suo coinvolgimento nell'eutanasia di Martha.
La colonna sonora di Alberto Iglesias è decisamente almodovariana, avvolgente e melodrammatica in alcuni passaggi, ansiogena e da noir quando gli archi prendono il sopravvento. Proprio questi, naturalmente, fanno pensare alle tante musiche composte da Bernard Herrmann per Alfred Hitchcock, e non è certo un caso che li sentiamo in uno dei momenti più hitchcockiani del film, quando Ingrid, a mezza scala (si pensi a Il sospetto e a Cary Grant che raggiunge la camera da letto di Joan Fontaine col celeberrimo bicchiere di latte), trova chiusa la porta rossa della stanza di Martha.

Un discorso a parte meritano la scenografia e i suoi colori, elementi fondamentali nell'economia della pellicola. Prima di tutto la casa fuori da New York dove Martha decide di passare gli ultimi giorni della sua vita con Ingrid: si tratta in realtà di Casa Szoke, opera dello studio di architettura Aranguren + Gallegos, realizzata a un passo da Madrid, sul versante sud del Monte Abantos a San Lorenzo de El Escorial. Il complesso, immerso nella natura, è costituito da piccoli volumi con grandi vetrate collegati tra loro che assecondano il terreno scosceso. Al suo interno, così come all'interno della casa di New York, dominano i colori sgargianti di Almodóvar: tulipani gialli-arancio, fiocchi di neve rosa, e poi il rosso e verde ovunque.

Rossa è la porta della stanza di Martha, la Volvo di Ingrid, sono rossi e verdi i maglioni dei protagonisti, le sdraio a bordo piscina della villa, le fragole e il loro picciolo al centro della tavola in cucina e anche i due dettagli della sciarpa e della giacca poggiata sull'ultima sedia in Gente al sole, il dipinto di Edward Hopper (1960, New York, Smithsonian American Art Museum) che compare in una delle sale della villa.
Con la consueta nettezza priva di sfumature, la tela, che mostra una terrazza simile a quella in cui si sdraiano Ingrid e Martha, comunica silenzio, immobilità e inquietudine, caratteri e sentimenti che pervadono anche la pellicola di Pedro Almodóvar, tra razionalità, impegno civile e umanità.
Tra le opere inserite in scenografia, sopra il divano su cui conversano Martha e Ingrid, c'è la foto Duelo, Canosa di Puglia (2000), un omaggio a Cristina García Rodero, la prima fotografa spagnola entrata nella Magnum, che immortala tradizioni rurali e riti religiosi ancora persistenti, come in questo caso in cui fotografa un gruppo di donne di Canosa vestite in nero e col volto coperto, durante la processione del sabato santo dedicata alla Madonna Desolata.  
Sopra lo stesso divano, infine, ci sono anche il fazzoletto creato nel 1996 da Louise Bourgeois con la scritta I have been to hell and back. And let me tell you, it was wonderful e un ritratto di Tilda Swinton.
Per chiudere, un'ennesima immagine. Dopo che Ingrid si confida con lui sulle condizioni di salute dell'amica, un personal trainer vorrebbe abbracciarla, ma non può farlo da regolamento professionale, per non rischiare denunce dai clienti. Ingrid reagisce con un "mi sento abbracciata" ed è la sensazione che il pubblico affezionato ad Almodóvar avverte guardando La stanza accanto, bello, razionale, politico e colorato, ma a distanza, lasciandoci lucidi e consapevoli.

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