giovedì 1 dicembre 2022

Il Colibrì (Archibugi 2022)

Con una mdp che si muove sulla costa toscana e continua a farlo entrando sulla terraferma e nelle due ville dei protagonisti, inizia Il Colibrì di Francesca Archibugi, adattamento dall'omonimo romanzo di Sandro Veronesi (2019 e Premio Strega 2020), che racconta le vicende private e intrecciate di due famiglie tra gli anni '70 e i giorni nostri. 
Il film, che ha aperto la Festa del Cinema di Roma, è perfettamente circolare e strutturato attraverso una serie di flashback, che danno dinamismo alla storia e portano lo spettatore continuamente a spasso per il tempo, per poi tornare alla stessa sequenza iniziale, ma girata in controcampo, e quindi rivelatrice di ciò che all'inizio non potevamo immaginare (trailer).
Probo e Letizia Carrera (Sergio Albelli e Laura Morante) sono una coppia di facoltosi liberi professionisti, ingegnere lui, architetto lei, con tre figli, Irene (Fotinì Peluso), Giacomo (Niccolò Profeti) e Marco (Francesco Centorame). La loro famiglia sembra essere sull'orlo di una crisi di nervi e oltre, tra le gelosie di Letizia nei confronti dei Lattes, la famiglia che ha la villa vicino alla loro, l'ansia patologica di Irene e i problemi di sviluppo di Marco che, proprio per la sua piccola statura, viene chiamato "il Colibrì" dalla mamma.
Marco, da grande (Pierfrancesco Favino), è un affermato oculista con lo studio a Roma, in Prati, sposato con Marina (Kasia Smutniak), una bella ma instabile donna dell'est e dallo "spirito balcanico" da cui ha avuto una bimba, Adele (da adolescente Benedetta Porcaroli), anche lei con qualche problema psicologico, ossessionata dall'idea di avere un filo dietro la schiena che la tiene ai muri e che rischia di far inciampare le persone.
L'uomo, però, non ha mai smesso di avere contatti con Luisa Lattes (Berenice Bejo), la bellissima e affascinante figlia dei vicini del mare, con la quale ha un rapporto di amore platonico, fatto di lettere, qualche incontro, ma che non va mai oltre questo.
L'idealizzazione del loro rapporto è ben sintetizzata da una battuta di Luisa, che riconosce a Marco il particolare ruolo di punto di riferimento assoluto, ma allo stesso tempo impalpabile e quindi irreale: "sei il paragone di ogni relazione che ho avuto, ma siccome la nostra non esiste, vince sempre". A Luisa, in effetti, molto più pragmaticamente femminile, sembra stare stretto quel rapporto perfetto ma mai consumato, e viaggiare su quell'impossibile crinale di continua correttezza verso tutti, che caratterizza la vita fatta di sacrifici di Marco, non fa per lei, consapevole che non far male a nessuno significa far comunque male a qualcuno: "sì, a noi!" esplode davanti all'ennesima spiegazione finalizzata all'equilibrio da parte di Marco.
Tutte le relazioni di coppia della storia sono costellate di tradimenti, di infedeltà, di silenzi, di storie tenute nascoste, una realtà a cui Marco vuole sfuggire, convinto di essere al di là di tutto questo, una presunzione che sembra precludergli solo i picchi di felicità, perché quelli di infelicità restano tali anche così e le gelosie di Marina sono piene come, e forse di più, che se quel tradimento fosse davvero avvenuto ("ha sempre amato quell'altra"). E nelle liti furibonde, sarà proprio Marina a dirgli "io ti ho sempre mentito, ma tu hai fatto di peggio, tu mi hai creduto", sintesi dei suoi sensi di colpa e di quel grido di dolore che trova nel tradimento solamente un sollievo momentaneo, schiacciando soprattutto chi tradisce.
Marco è un loser, una sorta di Noodles di C'era una volta in America (Leone 1984) in versione borghese italiana, un uomo che preferisce il sacrificio alla felicità e la vita sembra non fare altro che ricordarglielo. Eppure Carredori (Nanni Moretti), lo psichiatra di Marina ma che col tempo diventerà presenza più o meno stabile anche nella vita di Marco, glielo ripeterà a chiare lettere: "lasci stare la voglia di vivere, pensi a vivere". Marco, però, è davvero un colibrì, anche da adulto, come gli ripete Marina, perché investe tutta la sua energia per stare fermo proprio come l'incredibile battito d'ali che riesce a immobilizzare l'uccellino in volo.
La sua immagine di nonno con Mira, la figlia che Adele avrà da un'avventura non troppo meditata, è bellissima, ma è anche il segno delle sue scelte. Il suo immobilismo è confermato anche di fronte al rapporto col denaro, poiché anche davanti a cifre spropositate, li eviterà nel terrore che possano cambiare qualcosa: "la mia vita mi piace, me la tengo così com'è". E così farà fino al suo ultimo giorno, ringraziando persino chi lo aiuterà nel suo estremo desiderio...
Favino è il solito mattatore assoluto e il film si accentra su di lui, attorno a cui ruota tutto, dal personaggio di Laura Morante, donna altoborghese nervosa e urlante, alla bravura e alla bellezza di Kasia Smutniak e di Berenice Bejo, impeccabile nell'irraggiungibile donna dei sogni. Inevitabile che, quando appare, l'iconico Nanni Moretti rubi un po' la scena, mostrandosi come un Michele Apicella invecchiato (un po' come succedeva nel uso ultimo Tre piani), quando lo sentiamo spiegare la sua passione nel fare da arbitro di tennis: "mi piace sovrastare, dominare, far arrabbiare i giocatori". 
Tra gli altri personaggi che incrociano la vita del protagonista un posto speciale merita l'amico di gioventù, Duccio (Lorenzo Mellini da ragazzo e Massimo Ceccherini da adulto), vessato dagli altri coetanei con lo stigma del portasfortuna. Grazie a lui il protagonista, allora ventenne, ha salva la vita, scendendo da un aereo che poi andrà in avaria durante il volo, causando la morte di tutti i passeggeri. I due, però, si perderanno di vista per l'incauta necessità di Marco di parlare troppo in gruppo, in cui la parola in più è soprattutto uno strumento da palcoscenico che notizia necessaria da fornire all'uditorio. Proprio al Duccio adulto spetta una delle battute più belle del film, quando da jettatore professionista rivela al vecchio amico "io adesso vivo a Napoli, è come per un torero vivere a Siviglia".
Su quell'aereo, ironia della sorte, avrebbe dovuto salirci anche la hostess Marina, che diverrà sua moglie e di cui Marco si invaghisce anche per questa straordinaria coincidenza. Eppure la verità non è mai così chiara, perché manipolabile, alterata dai racconti, dai punti di vista.
Tra le sequenze da ricordare quella di Marina che asseconda l'ossessione della piccola Adele, fingendo di stendere i panni proprio sul filo immaginario, in un momento che tanto ricorda il cinema muto, un po' Charlie Chaplin, ma forse anche meglio il più grande dei personaggi muti del cinema parlato, Jacques Tati. E quel filo verrà assecondato anche nelle attività fatte praticare ad Adele, che fatalmente sceglierà prima la scherma e poi l'arrampicata, entrambi sport che per motivi diversi costringono gli atleti a tenere davvero un filo dietro la schiena.
Anche un po' di storia della televisione si percepisce dallo schermo della villa dei Carrera in qualche flashback in cui è facile riconoscere l'audio della sigla di Carosello, ma anche Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini, elemento datante di quella sequenza, poiché uscito per la RAI proprio nel 1972. E, infine, tra gli elementi di cultura popolare del tempo, la sceneggiatura, firmata da Francesca Archibugi, Laura Paolucci e Francesco Piccolo, precisa che Probo Carrera conservava tutti i numeri della collana di letteratura fantascientifica Urania pubblicati da Mondadori dal 1952 al 1981.
La colonna sonora ha una selezione di brani che aiutano a contestualizzare i momenti, si va così da Dancing Barefoot di Patti Smith a London Calling dei Clash, alle musiche composte appositamente per il film da Battista Lena, come Il Colibrì, Adele Si chiamerà Miraijin, fino all'inedito di Sergio Endrigo, cantato da Marco Mengoni sui titoli di coda, Caro amore lontanissimo.
Diverse le location che saltano all'occhio, a partire naturalmente dall'Argentario in cui sono le ville dei Carrera e dei Lattes in cui la pellicola inizia, torna spesso e finisce; ma anche piazza Santo Spirito e soprattutto piazza Savonarola, dov'è l'abitazione fiorentina dei Carrera - il cui corridoio viene inquadrato come quello de La famiglia di Ettore Scola (1987) - e dove naturalmente spicca il monumento ottocentesco del predicatore domenicano opera del ravennate Enrico Pazzi, lo stesso della più celebre statua di Dante Alighieri in piazza Santa Croce. E a Firenze, tra gli altri, vediamo anche la loggia del Mercato Nuovo, per tutti la loggia del Porcellino, dove il piccolo Marco vede la madre con un amante, sequenza psicologicamente illuminante per comprendere ancora meglio certi comportamenti del Marco adulto.
Il film è piacevole, fa riflettere, fa commuovere e fa sorridere, ma non convince mai fino in fondo. Favino a parte, il resto del cast sembra arrancare dietro personaggi oleografici e ben noti al cinema italiano. Non ci sono scosse, né picchi.

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