mercoledì 2 gennaio 2019

Bohemian Rhapsody (Singer 2018)

Vale la pena guardare un film come questo? Può la passione per un gruppo musicale far perdere la capacità di giudizio? La pellicola celebra adeguatamente i Queen? Perché Brian May, Roger Taylor e Jim Beach, che quegli anni li hanno vissuti, pur essendo tra i produttori, hanno avallato così tante stramberie nella sceneggiatura? 
Sono solo alcune delle domande che alla fine della proiezione di Bohemian Rhapsody, di fatto soprattutto un biopic su Freddie Mercury che sulla band, si affastellano nella mente. 
Bryan Singer, licenziato sul finire delle riprese e sostituito da Dexter Fletcher (non accreditato; leggi), prova a farci ripassare la storia dei quattro membri dei Queen, e questo è indubbiamente il pregio della pellicola, ma pur volendo ignorare le tante imprecisioni cronologiche, c'è tanto altro che non convince (trailer).
A partire dall'intenzione: è vero, non si tratta di un documentario, quindi qualche concessione alla realtà dei fatti è possibile, ma perché così tante? E allora perché contraddire questa supposta volontà di autonomia narrativa, con oltre venti minuti "più reali del reale", che riproducono in maniera puntuale la performance del gruppo al Live Aid del 1985, con tanto di stadio di Wembley ricostruito e bicchieri di birra e di Pepsi sul pianoforte suonato da Freddie quel giorno? Ma soprattutto, perché raccontare la vita di un uomo per nulla politically correct da un punto di vista così terribilmente politically correct
Il film, in fondo, è una superproduzione molto dispendiosa, che ha dato un risultato mediocre.


Rami Malek e Freddie Mercury al Live Aid
Freddie Mercury (Rami Malek) si alza dal letto, appare di spalle, è debole; poco dopo lo vediamo salire sul palco di Wembley: è il 13 luglio 1985 e i Queen, dopo alcuni anni di separazione (in realtà il "periodo di pausa" era stato quello tra 1982 e 1983, tra la fine del tour di Hot Space e l'inizio del lavoro per il nuovo album The Works, che uscì nel 1984), tornano a suonare dal vivo in occasione del Live Aid organizzato da Bob Geldof (Dermot Murphy). Il loro leader, pochi giorni prima, ha comunicato agli altri componenti del gruppo di avere l'aids (Freddie, invece, scoprì di essere malato nel 1987 e rilasciò un comunicato stampa sulle sue condizioni di salute solo nel novembre 1991, poco prima della morte).
È eccitante vedere la soggettiva di Freddie che, vestito in jeans, canottiera bianca, cinta e bracciale borchiati, avanza elettrizzato su quel palco, e questo come tanti altri momenti funzionano dal punto di vista emozionale. Di cinema, però, ce n'è davvero molto poco...
Il film, in flashback, torna al 1970 e ripercorre le principali tappe della storia del gruppo, dalla fondazione alla citata filologica riproduzione del breve concerto per il Live Aid.
Farrokh Bulsara, che cambiò il nome in Freddie Mercury, si trasferì a Londra con la sua famiglia indiana parsi a metà degli anni sessanta, e nel film a precisarlo è la sorella che, di fronte alle domande degli amici che credono sia nato a Londra, sorride: "sì, ci è nato a diciotto anni!". Pochi anni dopo s'imbatté negli Smile (di cui ascoltiamo Doing all right che poi entrerà nel primo Lp dei Queen); Tim Staffel, bassista e cantante, lasciò il gruppo e Freddie lo sostituì alla voce, mentre al basso poi arrivò John Deacon (Joseph Mazzello). La sequenza dell'incontro con Brian May (Gwilym Lee), allora studente di astrofisica, e Roger Taylor (Ben Hardy), studente di odontoiatria, è piacevole, anche se non fedele ai fatti: Freddie si propone come sostituto alla voce, mentre fu invece proprio Staffel, che passò agli Humpy Bong, a segnalare l'amico agli altri due. Di fronte all'iniziale scetticismo di Brian ("you're the clever one", gli dice Freddie che lo riconosce la mente del gruppo) e Roger, li convince accennando qualche nota della loro canzone e attribuendo la propria estensione vocale ai suoi quattro incisivi in più, trasformati così da un difetto estetico ad una dote irrinunciabile. 
Fu lo stesso Freddie, che studiava design, a ideare il logo del gruppo e il nuovo nome, regale e irriverente al tempo stesso (in slang "queen" equivale a dire gay in maniera offensiva); fu lui a spingere gli altri a vendere un piccolo furgone in modo da racimolare i soldi per incidere il primo disco (Queen, 1973).
Durante quelle registrazioni si interessò a loro un talent scout della EMI records: da lì iniziò il rapido trionfo che, stando alle parole di Freddie nel film, fu possibile perché "siamo dei disadattati che suonano per altri disadattati". Nel 1973 il primo singolo, Keep yourself alivee il passaggio alla BBC (vedi) e, dopo i primi successi, la consacrazione con A night at the opera (1975), quarto album del gruppo, in cui è inserita la celeberrima Bohemian Rhapsody che dà il titolo al film.
All'ideazione di quel disco, e soprattutto di quella canzone, è dedicato molto tempo: il gruppo si trasferisce per tre settimane in Herefordshire, dove aggiungono brani operistici, provano cori e vocalizzi, completano quello che sarà il brano portante del disco. La difficile struttura, il testo apparentemente "privo di significato", ma soprattutto la durata di oltre sei minuti, però, lo rende inaccettabile agli occhi del produttore Ray Foster (Mike Myers) che si rifiuta di usarlo come primo singolo dell'album, preferendogli persino I'm in love with my car, il brano scritto da Roger Taylor per cui il batterista viene continuamente preso in giro dal resto del gruppo, a causa del buffo testo che paragona l'avvenenza e la sensualità di una donna a quella di un'automobile. Il personaggio di Foster è di pura fantasia: i Queen a suo tempo si scontrarono con diversi produttori, e su tutti Norman Sheffield, a cui Freddie dedicò Death on two legs, nel cui testo gli diede dello squalo senza mezzi termini, ma nemmeno con lui, di cui comunque non c'è traccia nel film, giunsero ad uno scontro così forte per Bohemian Rhapsody. Qui la presenza di Mike Myers ha piuttosto un valore citazionista, come dimostra la frase che rivolge a Freddie, "nessuno scuoterà la testa in macchina ascoltando questa roba", battuta perfetta per lui che la scuoteva non poco in Fusi di testa (Spheeris 1992) cantando proprio Bohemian Rhapsody (vedi).
Freddie, alla fine, risolse le difficoltà dei passaggi radio causati dalla lunghezza della canzone, portando di persona il 45 giri all'amico dj Kenny Everett, che la passò più volte nel finesettimana seguente. E il successo fu totale.
Singer concede brevi spazi anche alla nascita di altri capolavori, come Killer Queen, che l'anno prima di Bohemian Rhapsody raggiunse il primo posto in classifica; We will rock you, che Brian nel film compone per coinvolgere e far cantare il pubblico durante i concerti (anche se venne pubblicato nel 1977 e nel film è posticipato al 1980); I want to break free è ricordata per la censura del video da parte di MTV; Another one bites the dust, infine, placa i litigi tra Freddie e gli altri, secondo un cliché dell'immaginario rock molto abusato, al pari di quello dello scontro con il produttore per Bohemian Rhapsody, anch'esso mai accaduto.
E sono proprio i tanti cliché, figli di una sceneggiatura banale e moralista, a risultare insopportabili nel film. Tra questi, su tutti, il modo in cui viene affrontata la vita privata di Freddie, l'unica ad essere raccontata, ignorando totalmente quella degli altri componenti. Il suo rapporto con la famiglia d'origine e, soprattutto, le sue relazioni private. Se Mary Austin (Lucy Boynton) fu indubbiamente prima un grande amore e poi un'amicizia importantissima, non si può non notare che la vita di Freddie appare in ascesa e in piena felicità finché è con lei, mentre conosce una discesa continua dal momento in cui rivela la propria omosessualità e, soprattutto, quando inizia a frequentare Paul Prenter (Allen Leech) il personaggio a cui di fatto vengono attribuiti, seppur non esplicitamente, tutti i mali della vita del cantante dei Queen: l'aids, l'allontanamento dagli altri, la necessità di progetti solisti. 
Paul Prenter e Allen Leech nei suoi panni
Fu lui per anni amico, amante e manager di Freddie, che lo licenziò solo nel 1986, ma nel film, ancora una volta per esigenze di copione, tutto viene anticipato almeno di un anno, diventando così la premessa per la ricongiunzione della band e per la partecipazione al Live Aid.
Inoltre, viene trasformata in un'intervista televisiva quella con cui Paul, dopo essere stato scaricato, si vendicò rivelando molti particolari delle abitudini sessuali di Freddie, che nella realtà fu invece un'intervista rilasciata nel 1987 al quotidiano inglese The sun.
Il legame con Paul è trattato come l'ingresso nella perdizione: il 1980 segna uno spartiacque, Freddie cambia la propria immagine, facendosi crescere i baffi e tagliandosi i capelli; passa molto tempo tra feste a base di droga e sesso, va a Berlino con Paul, la paura di rimanere solo si esplicita in un profondo senso di horror vacui
Anche sui progetti da solista la sceneggiatura non rispetta la storia: Mercury, infatti, non fu l'unico a intraprenderli, ma tutti e quattro ebbero esperienze in tal senso. Nel film non solo viene ignorato questo, ma lo stesso bisogno di un progetto solista viene giustificato da Freddie come un surrogato alla costituzione di una famiglia propria, creata dai suoi colleghi e per lui impossibile. Persino il suo legame successivo con Jim Hutton (Aaron McCusker) viene letto in maniera moralistica, come sorta di "porto sicuro" per quelli che ormai Freddie sa essere gli ultimi anni della sua vita, anche se nel 1984, anno in cui la loro relazione iniziò, il cantante, come visto, non sapeva ancora di aver contratto la malattia.
Mary e Freddie nella realtà e nel film
Ma torniamo alla relazione di Freddie con Mary Austin che, come detto, domina gran parte della pellicola. Il loro "colpo di fulmine" al college; la loro convivenza (insieme ascoltano L'amour est un oiseau rebelle della Carmen, altra sottolineatura della passione di Freddie per l'opera); la dolce proposta di matrimonio; Love of my life, la splendida canzone che Freddie scrive per Mary, sulle cui note, nel film, le rivelerà di essere bisessuale, una rivelazione che Mary attendeva da tempo ("no, tu sei gay"). Incredibilmente, nessuna delle effusioni che vediamo rivolgere a Mary si rivedranno quando il leader dei Queen avrà le sue relazioni omosessuali.
Freddie, che ha rinunciato al proprio nome e non vive secondo i precetti religiosi della sua famiglia, ha un rapporto difficile anche con il padre ma, giunto a Londra per il Live Aid, passa a casa dei genitori e lo abbraccia poco prima di dirigersi a Wembley, in una melensa sequenza da parabola del figliol prodigo, ennesimo cliché del film...

Tutto è profondamente televisivo, nel senso deteriore del termine, la sceneggiatura risulta inadeguata, così come lo sono la regia, mai degna di nota, e la fotografia di Newton Thomas Sigel, sempre molto luminosa e piatta, fatta eccezione per la sequenza all'uscita dall'ospedale: a Freddie è stato appena diagnosticato l'aids, la musica è Who wants to live forever e i raggi del sole entrano nell'ambiente che sta percorrendo come lame di luce, proprio come accadeva in diverse scene di Highlander (Mulcahy 1986), di cui quel brano rappresenta uno degli elementi essenziali.
Al film va indubbiamente riconosciuto un buon lavoro nella scelta degli attori e nell'emulazione dei corrispettivi reali, alcuni molto somiglianti (vedi): su tutti spicca l'analogia tra Brian May e Gwilym Lee, davvero impressionante, ma non si può dimenticare che proprio per il ruolo di Freddie Mercury nel 2010 era stato scelto Sacha Baron Cohen, fisicamente più vicino al leader dei Queen di Rami Malek, ma che lasciò il progetto nel 2013 per divergenze con la produzione. Dopo aver visto il film, la sensazione netta è che l'attore londinese d'origine israeliana non abbia avuto tutti i torti, poiché non accettò che la storia evitasse gran parte dei dettagli più "scorretti" della vita del personaggio che avrebbe dovuto interpretare (vedi intervista). E le polemiche contro la Fox gli stanno dando ragione (es. Bryan Fuller, 1; risposta di Rami Malek, 2).
La storia dei Queen, in effetti, avrebbe meritato ben altro risultato di un film che cercando l'epica trova la morale. 
Chissà, forse sarebbe stata più adatta una serie tv, che avrebbe garantito lo spazio tanti più episodi. In tal senso non va poi dimenticato che si è scelto di raccontare solo quindici anni della storia della band, fermandosi al 1985, sei anni prima della morte di Freddie Mercury (novembre 1991), durante i quali il gruppo realizzò altri due dischi di successo, come A kind of magic Innuendo. Ci sarà un sequel?
Personalmente, infine, continuo a pensare che un film sui Queen avrebbe meritato anche un titolo più ricercato piuttosto che riproporre quello della loro canzone più famosa. E che, anche andando a pescare da Bohemian Rhapsody, si sarebbe potuto scegliere uno dei versi più poetici, come quello finale, Anyway the wind blows...

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