lunedì 10 marzo 2014

Gravity (Cuarón 2013)

Visto a marzo, dopo la notte degli Oscar e il suo trionfo con ben sette statuette, non si può non partire da lì per commentare il film di Alfonso Cuarón. 
Dei tanti premi accumulati, infatti, quello meno comprensibile è proprio il più importante, la miglior direzione al regista messicano, al punto da far dubitare cosa intenda per regia l'Academy: non un guizzo da parte di Cuarón, belle le immagini dello spazio, per cui il film ha altrettanto inspiegabilmente vinto l'Oscar alla migliore fotografia (ma quelle di American Hustle e A proposito di Davis a chi scrive sono sembrate nettamente migliori).

Con una facile provocazione si potrebbe dire che per tutto questo, piuttosto, avrebbe meritato la NASA, che ha fornito del materiale sensazionale alla produzione del film, e che forse, per il gran lavoro digitale fatto a partire da quello, sarebbe bastato il riconoscimento per gli effetti speciali e, al massimo, per il missaggio e il montaggio sonoro (pur se anche per questi due il film dei Coen sembrava meritare di più). Ingiustificati, infine, gli altri due Oscar assegnati al film: la colonna sonora, incredibilmente magniloquente, e il montaggio, decisamente piatto.

Detto questo, veniamo al film in sé, una tipica storia a stelle e strisce, la cui protagonista, Ryan Stone (Sandra Bullock), che sulla terra ha già perso una figlia di quattro anni, per aumentare il coefficiente dell'epopea, è costretta a fronteggiare, in rapida sequenza, un'avaria di un componente dello shuttle e l'impatto con dei detriti cosmici che causano la morte di due uomini dell'equipaggio. A salvarsi, oltre lei, sarà solo Matthew Kowalski (George Clooney), che presto, naturalmente, verrà scaraventato per sempre nello spazio, lasciando sola questa sorta di 'piccola fiammiferaia internauta', che raggiungerà due diverse stazioni (una russa e una cinese) e che, dopo aver superato persino un incendio, anche quando riuscirà ad atterrare (o meglio ad ammarare) rischierà la vita affogando dopo l'apertura del portellone della navicella...
Il contatto con la spiaggia e il momento in cui la Bullock si rimette in piedi sul nostro pianeta, segnano non solo la fine del film, ma anche l'epica del momento, sottolineato dalla musica e da un'inquadratura dal basso che fa giganteggiare la protagonista.

Le interpretazioni della Bullock e di Clooney non rimarranno nella memoria: la prima si ritrova in una situazione limite simile a quella che la rese celebre in Speed; il secondo, peraltro coproduttore del film, non riesce a smettere i panni del seduttore nemmeno mentre "passeggia" tra le stelle. I due, va detto, non vengono aiutati dalla sceneggiatura, che gli fa dire battute non certo indimenticabili, in cui Matt celebra la sua bellezza e il suo savoir faire, che non abbandona mai, neanche dopo la sua scomparsa, dato che torna nell'immaginazione di Ryan in un momento in cui sta per cedere alla sorte avversa! La donna, invece, dopo aver reagito grazie a quella 'visione' ed essersi affidata al santino di san Cristoforo (protettore dei viaggiatori, a quanto pare anche spaziali), un attimo prima di entrare nell'atmosfera non potrà evitare di urlare che "in ogni caso sarà stato un grande viaggio".
Piacevole l'effetto provocato nello spettatore dai primi venti minuti del film, durante i quali, prima dell'infinita serie di eventi sfortunati, i due astronauti "chiacchierano" semplicemente nello spazio come due colleghi di un normale ufficio, rendendo con semplicità straniante la quotidianità di un lavoro straordinario come quello.
Il film, ovviamente, dato il genere, non può prescindere dal riferimento al capolavoro assoluto 2001 Odissea nello spazio e, indubbiamente, la parte cinematograficamente migliore è proprio quella in cui Ryan raggiunge la base russa, dove scarica la tensione chiudendo gli occhi e raggomitolandosi nell'assenza di gravità, proprio come l'embrione del celeberrimo precedente.
La sola esistenza del film di Kubrick (1968), ma anche di Solaris di Tarkovskj (1972), rendono quantomeno discutibile, se non risibile, l'affermazione del regista James Cameron, che su Gravity si è così espresso: "Credo che abbia la miglior fotografia 'spaziale' mai vista, e penso che sia il miglior film sullo spazio di sempre".
In buona sostanza Gravity, invece, conferma quanto una pellicola capace di esaltare il sogno americano e la potenza degli Stati Uniti, in questo caso declinata al settore aeorspaziale, sarà sempre più amata dall'Academy di uno che analizza dall'interno, criticandole, le storture di quel sistema (impersonate ad esempio nel broker truffatore interpretato da Leonardo DiCaprio in The Wolf of Wall Street). Più facile, naturalmente, premiare un film che critica la società di un paese straniero come La grande bellezza, che laddove è stato ideato, invece, fa lo stesso effetto del film di Scorsese negli Stati Uniti... Curioso, no?

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