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Siamo nel 1917, sul fronte nord orientale, in piena Prima guerra mondiale, e gli eventi sono liberamente ispirati al racconto di Federico De Roberto La paura (1921).
La breve durata (solo 80 minuti) permette al regista di non fare concessioni e di mantenere uno stile incredibilmente rigoroso, fatto di inquadrature splendide e di un ritmo lento e angosciante: la mdp indugia sulle montagne coperte dalla neve, sui tagli di luce all'interno della trincea, sugli animali che abitano i dintorni e, soprattutto, sui volti dei soldati, che trasformano le immagini in ritratti degni dei pittori fiamminghi: volti di cui vediamo i dettagli, le rughe, gli occhi e, attraverso questi, il sentimento di sconforto che li domina.
Al piccolo manipolo di soldati arrivano ordini impossibili da eseguire, che li condannano ad essere martiri: è per questo che uno di loro, piuttosto che farsi uccidere dagli austriaci, dopo aver fatto pipì nella neve ("anche le bestie pisciano e cacano prima di andare al macello") si suicida davanti al maggiore, interpretato da un sorprendente Claudio Santamaria.
Viene in mente il crocifisso bruciato per accendere il fuoco dai lanzichenecchi nello straordinario Il mestiere delle armi (2001), con cui il nuovo film del maestro lombardo condivide anche una incredibile somiglianza del giovane tenente Alessandro Sperduti con Hristo Jivkov che allora interpretava Giovanni dalle Bande Nere. È quindi evidente che siamo molto lontani da film di trincea come Orizzonti di gloria (1957) e decisamente più vicini alla dimensione umana della guerra, quella che non ha epoche e che, quindi, permette di affiancare i sentimenti provati dai soldati in prima linea di una battaglia cinquecentesca a quelli di coloro che furono in trincea nella Prima guerra mondiale, appunto.
In tutto il film, arricchito dalle belle musiche di Paolo Fresu, si respira l'aria della tragedia incombente e le bombe e i tanti morti la rendono reale in pochi minuti. La toccante lettera del "tenentino" alla madre, in cui sente di essere invecchiato molto di più del tempo realmente passato in trincea, è una bellissima confessione che è al tempo stesso una dichiarazione di resa, non solo allo straniero, ma anche ai propri ideali e ai propri sogni, ormai privi di senso.
È qui, dopo che la morte è arrivata, che uno dei soldati superstiti evidenzia l'assenza di significato di tutto questo e come, una volta ricresciuta l'erba, laddove ora c'è solo neve, non rimarrà più traccia di cosa è avvenuto, di quanto si è patito in quel luogo...
Nell'ossessiva ricerca alla celebrazione del centenario della Prima guerra mondiale, non sempre frutto di reale riflessione, quanto di corsa all'accaparramento di fondi messi a disposizione dallo Stato, il film di Olmi è di gran lunga la nota più alta raggiunta finora dalla cultura italiana.
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