Dopo il grande successo di Ultimo tango a Parigi, il produttore Alberto Grimaldi lasciò a Bernardo Bertolucci carta bianca per girare qualsiasi film avesse voluto. Nacque così Novecento, una delle pellicole più politiche della storia del cinema italiano, un'opera unica e dal fascino indiscutibile, che, data la lunghezza (poco oltre le cinque ore), all'uscita nelle sale venne distribuita divisa in due atti. Uno splendido omaggio alla cultura contadina italiana, e nella fattispecie a quella emiliana, in una visione che prende le mosse anche dall'autobiografia del regista, che fino a dodici anni visse nella campagna parmense.
Un film fatto di contrasti, che rivisto oggi forse pecca di eccessivo manicheismo, ma che calato nella realtà del tempo è una fondamentale analisi della lotta di classe nel nostro Paese. Le opposizioni dialettiche sono evidenti a partire dal soggetto, scritto da Bertolucci insieme al fratello Giuseppe e a Franco Arcalli, che racconta la storia d'Italia dal 1901 al 1945, utilizzando la microstoria di un'azienda agricola in cui si scontrano padroni e contadini.
Un film fatto di contrasti, che rivisto oggi forse pecca di eccessivo manicheismo, ma che calato nella realtà del tempo è una fondamentale analisi della lotta di classe nel nostro Paese. Le opposizioni dialettiche sono evidenti a partire dal soggetto, scritto da Bertolucci insieme al fratello Giuseppe e a Franco Arcalli, che racconta la storia d'Italia dal 1901 al 1945, utilizzando la microstoria di un'azienda agricola in cui si scontrano padroni e contadini.
Poco meno di mezzo secolo viene narrato attraverso un lunghissimo flashback. La vicenda, infatti, inizia il 25 aprile 1945, giorno della Liberazione, per poi tornare indietro al 27 gennaio 1901 - "è morto Verdi" è la prima battuta del film pronunciata dal gobbo Rigoletto (Giacomo Rizzo) -, giorno in cui nascono i due protagonisti: Alfredo Berlinghieri (Paolo Pavesi e da grande Robert De Niro), ultimo rampollo della famiglia latifondista, e Olmo Dalcò (Roberto Maccanti e poi Gerard Depardieu), membro bastardo di quella dei contadini.
Sono i nonni i primi a festeggiare: principalmente Alfredo (Burt Lancaster), che decide di stappare alcune bottiglie di vino coinvolgendo i contadini dell'azienda e la loro guida, Leo (Sterling Hayden), il nonno di Olmo, il personaggio per cui Bertolucci dichiarò di essersi ispirato ad un contadino vicino di casa nella sua infanzia che considerava come un secondo nonno.
Opposte sono le loro iniziazioni familiari, mostrate dal regista una dopo l'altra, come fatto per il momento della nascita. Olmo, in una stanza affollata dai tanti componenti della famiglia, cammina a piedi nudi su una lunghissima tavolata, fino ad arrivare al cospetto del nonno che gli spiega come, anche se imparerà a scrivere, sarà sempre un Dalcò e, soprattutto, che il soldo ricevuto da Giovanni (Romolo Valli), il figlio del padrone, non può essere solo suo, perché "se è tuo, vuol dire che è anche nostro". Alfredo invece è a tavola con la sua azzimata famiglia, i cui componenti non fanno che litigare per questioni di potere e denaro - nel ruolo della vecchia suora zia di Giovanni c'è anche la grande Francesca Bertini, diva del cinema muto -, ma suo nonno lo porta a giocare con un fucile, fingendo di colpire i vari commensali. La grettezza dei Berlinghieri è tutta nella sequenza del finto testamento inscenato da Giovanni e dalla moglie, con Alfredo già morto, in modo da estromettere dall'eredità, fatta eccezione per un vitalizio, il primogenito Ottavio (Werner Bruhns), il viveur della famiglia, che vive agiatamente lontano dall'Emilia.
I due bambini - forse persino fratellastri, a giudicare dal tono dolce con cui Giovanni si rivolge ad Olmo - cresceranno provando tutto sommato un reciproco affetto, dettato dalla condivisione del luogo e dei momenti fondamentali della propria vita, ma si tratta di un'amicizia impossibile, a causa dei ruoli che la società gli ha destinato ancor prima della nascita: il padrone e il contadino. Eppure alcuni dei momenti più lirici del film li riguardano: la sfida sul coraggio culminante nel passaggio del treno sopra il proprio corpo; Olmo che sente la voce del padre, che non ha mai conosciuto, nei pali del telegrafo, nel pozzo, nelle botti di lambrusco; entrambi che osservano la città in lontananza con Alfredo che spiega ad Olmo la differenza tra un campanile e una ciminiera; fino alle prime esperienze di autoerotismo, anch'esse politicizzate dall'espressione "socialista dalle tasche buche".
I numerosi passaggi d'epoca sono segnati da elementi simbolici o da ellissi narrative: la già citata morte di Giuseppe Verdi, posta in apertura del flashback iniziale, rappresenta la fine dell'Italia del Risorgimento; la scena in cui Giovanni esalta l'acquisto del "rastrello meccanico", che però non convince Leo, certo che il lavoro manuale sia molto più preciso, è solo l'inizio di quel processo inevitabile, che diverrà realtà solo pochi anni dopo. E Bertolucci non manca di sottolinearlo: il treno che conduce i figli dei contadini verso Genova si trasforma improvvisamente in quello che riporta Olmo a casa alla fine della Prima guerra mondiale, quando ormai tutto è meccanizzato.
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Dopo la Grande guerra, però, lo scontro sarà ancora più duro: coinvolgerà uomini e donne, ma stavolta Giovanni, che accusa i contadini di essersi fatti uccidere in massa facendogli perdere i braccianti, ha assunto il terribile Attila.
Il bisogno di protezione da parte dei padroni è all'origine dell'associazionismo di stampo massonico, come suggerisce la cupa scena ambientata nel Santuario della Beata Vergine di Curtatone, in cui il potere economico va a braccetto con quello religioso.
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Il secondo atto, che racconta i terribili venti anni seguenti, è decisamente più debole della prima parte del film, ma De Niro e Depardieu (per il cui ruolo Bertolucci aveva inizialmente pensato ad un attore sovietico) sono fantastici ed è un piacere vederli alternarsi sullo schermo, così come cresce la parte di Sutherland che non sfigura davanti alla coppia di protagonisti.
Alfredo, dopo aver scelto di vivere lontano dall'Emilia, in compagnia di suo zio Ottavio e di Ada, sarà costretto dagli eventi a tornare e a diventare il padrone dell'azienda, mentre Olmo nel frattempo è diventato padre di Anita, ma è rimasto solo.
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Olmo e il suo cappello di rane |
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Le guardie viste da Olmo e In vedetta di Fattori |
Il piccolo Olmo che si mette in mostra cacciando rane e mettendole sul cappello come trofeo è un perfetto ragazzo caravaggesco o quantomeno della manfrediana methodus, e lo stesso dicasi per le canestre di frutta che vediamo in casa Berlinghieri durante il pranzo a base di rane iniziale. Le nature morte sono disseminate ovunque nel corso del film: frutta, uccelli morti, bottiglie alla Giorgio Morandi e, infine, quando Olmo diventa un esperto norcino, il film ci mostra la lavorazione del maiale sin dal momento dell'uccisione, in una sorta di inserto documentario - Bertolucci sedicenne aveva girato un corto con questo tema -, che si chiude con un'immagine che può ricordare un celebre dipinto come Il maiale squartato di Joachim Beuckelaer (1563, Colonia, Walraf-Richartz Museum). Il dettaglio, peraltro, è inserito anche ne L'albero degli zoccoli (1978), film sulla vita rurale di fine '800 e capolavoro di Ermanno Olmi.
La crisi del raccolto e l'inappropriata ironia di Giovanni portano uno dei contadini a tagliarsi un orecchio in un estremo gesto di disperazione alla Vincent Van Gogh, ma l'intero inserto dedicato a quel personaggio è in qualche modo incentrato sul pittore olandese, dato che la toccante sequenza del frugale pasto con la famiglia è di fatto una ripresa del celebre dipinto dei Mangiatori di patate (1885; Amsterdam, Van Gogh Museum) con pochi pezzi di polenta al posto delle patate e un'aringa su cui sfregarli per dargli sapore che pende dall'alto, nella stessa posizione in cui nella tela compare una fonte luminosa.
Durante lo sciopero della Lega agraria, Olmo osserva in lontananza un paio di guardie a cavallo che sembrano prese dal famoso In vedetta di Giovanni Fattori (1872; Valdagno, collezione privata), mentre quando i padroni organizzano una caccia d'acqua, girata sul Mincio, la citazione diventa doppia: in ambito cinefilo si pensa ovviamente a La regola del gioco (Renoir 1939), dove la battuta di caccia si svolge nella tenuta in cui si ritrovano gli altoborghesi protagonisti del film, ma la diversa ambientazione qui la rende pressoché identica alla tavola, o meglio alla mezza tavola, della Caccia in laguna (Los Angeles, Getty Museum), parte superiore delle cosiddette Cortigiane di Vittore Carpaccio (1490-1495; Venezia, Museo Correr).
Un ultimo accenno al personaggio del licenzioso zio Ottavio, dedito all'arte egli stesso come collezionista, e che durante i soggiorni a Capri e Taormina con Ada e Alfredo, si dedica alla fotografia di ragazzi nudi in soggetti classicheggianti - "siamo divinità boscherecce" dice uno di loro con forte accento partenopeo -, proprio come faceva il fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden negli stessi luoghi e negli stessi anni...
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La caccia sul Mincio e La caccia in laguna di Carpaccio |
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Una foto di van Gloeden e la scena di zio Ottavio |
Un ultimo accenno al personaggio del licenzioso zio Ottavio, dedito all'arte egli stesso come collezionista, e che durante i soggiorni a Capri e Taormina con Ada e Alfredo, si dedica alla fotografia di ragazzi nudi in soggetti classicheggianti - "siamo divinità boscherecce" dice uno di loro con forte accento partenopeo -, proprio come faceva il fotografo tedesco Wilhelm von Gloeden negli stessi luoghi e negli stessi anni...
Ciao. Ho letto la tua recensione e la trovo molto azzeccata. Molti riferimenti ai capolavori dell'arte mi erano sfuggiti durante la visione di questo film che io considero un vero capolavoro cinematografico. Non per altro mia moglie ed io abbiamo deciso di chiamare nostro figlio proprio come il protagonista di questo film: Olmo.
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