Day of the fight, un titolo che fa drizzare le antenne di ogni cinefilo al ricordo del primo cortometraggio di Stanley Kubrick, anno di grazia 1951. Con quello, il film di Jack Huston condivide il soggetto, accompagnando il protagonista lungo la giornata che porterà al combattimento, e un nome, quello di Robert James, lì il Bobby sfidante del protagonista, Walter Cartier, qui un nome su una lapide (trailer).
Jack Huston è figlio, ma soprattutto nipote d'arte: il padre è lo sceneggiatore Tony, e il nonno il grande John Huston. Buon sangue non mente e, anche se finora lo abbiamo conosciuto come attore, su tutti nel ruolo dello sfigurato Richard Harrow nella serie Boardwalk Empire, il talento nella regia che mette in questo esordio è davvero tanto.
La sua pellicola scava nell'intimità del protagonista, attraverso un bianco e nero di grande impatto, fotografato da Peter Simonite, con un'attenzione spasmodica alla collocazione e ai movimenti della mdp, in cui gli attori fanno il resto con ottime interpretazioni.
Michael Pitt, Joe Pesci, il pugilato e il bianco e nero, l'analisi introspettiva sul protagonista hanno tutti una matrice comune, che risponde al nome di Martin Scorsese. Jack Huston e Michael Pitt sono state creature scorsesiane, così come Steve Buscemi (tutti in Boardwalk Empire), il modo di raccontare Mike Flannigan fa subito pensare a Toro Scatenato (1980), e poi Joe Pesci, già da solo connessione indissolubile col grande Marty, che qui, oltre a interpretare divinamente il padre di Mike (Tony, lo stesso nome del padre di Jack Huston), è anche produttore esecutivo. Si regala pochi attimi in scena, ma sono indimenticabili: prima una recitazione segnata dall'immobilismo della condizione fisica del suo personaggio e poi le pochissime parole pronunciate quando appare in una visione del figlio, dando massime sul senso della vita, fatta per aiutarsi l'un l'altro e per sostenere gli indifesi, forse frasi banali, ma dette da lui in quel momento, emozionano non poco. Ma andiamo per ordine.
Mike (Michael Pitt) è un pugile irlandese nato e cresciuto a Brooklyn. Già campione del mondo anni prima, dopo un tragico incidente in automobile causato dalla sua guida in stato d'ebbrezza, in cui ha perso la vita un bambino, Irish Mikey è finito in carcere e ha perso compagna e figlia. Ora ha ottenuto un nuovo incontro per il titolo, grazie al suo storico coach, Stevie (Ron Perlman), e quasi tutti si aspettano che quella sera, al Madison Square Garden, il suo ruolo sia quello di sparring partner del campione in carica, tanto è vero che le quote degli allibratori lo danno 40 a 1.
Una soggettiva onirica apre il film, denso, classico, con una rigorosa unità di tempo, di luogo e di azione. Fa eccezione il flashback dell'incidente, centrale al pari dell'incontro che si terrà la sera di questa ipertrofica giornata: due fuochi narrativi attorno a cui tutto ruota, soprattutto la vita di Mikey, sperduto, sconfitto, in cerca di una rivincita non tanto per sé, quanto per la sua ex compagna e sua figlia.
La mdp lo coglie dall'alto, al risveglio, in un'inquadratura leonianamente poetica: da quel momento non lo abbandonerà più, fino alla fine del film. Mike si allena, scrive su un quaderno che in copertina ha Mohammad Alì sul ring, cammina per Brooklyn e incontra persone, scommette sulla sua vittoria, va a trovare amici, guarda da lontano la figlia all'ingresso di scuola, un saluto fugace e a debita distanza, pranza con la ex compagna tra nostalgie e sensi di colpa, va in chiesa e parla con uno dei suoi migliori amici diventato sacerdote, va a trovare il padre in ospizio, va al cimitero, tutto fino all'incontro...
Tanti i motivi e i dettagli da analizzare in un film così ricco di immagini, di sensazioni, di cinema.
Mikey vive in un appartamento fatiscente, che la mdp rende poetico riprendendolo con dei tagli di luce che entrano diagonalmente negli ambienti.
Scorsese è sempre lì, la New York di quegli anni è immancabilmente sua, soprattutto se si parla di pugliato. Joe Pesci è magnifico: il suo personaggio, Tony Costello, non è più in grado di parlare e la sua interpretazione con gli occhi, con le labbra e con i muscoli facciali è un pezzo di bravura da far studiare nelle scuole di recitazione. La sequenza in cui Mike va dal padre è estremamente toccante: si confida con lui, lo critica per il passato violento e allo stesso tempo lo ama per gli anni trascorsi insieme e che non torneranno, in un soliloquio da brividi. Gli chiede scusa - con un ennesimo carico di sensi di colpa - per non essere diventato un cantante come avrebbe voluto (ma la sua ex compagna, Jessica, non a caso lo è); ricorda i momenti sereni da bambino, nella Cadillac di Tony; piange tanto, mentre sul piatto del giradischi fa andare un disco di suo padre, con una canzone che aveva dedicato alla moglie, morta suicida quando Mike era appena dodicenne.
L'immagine di lei seminuda seduta sul letto e con una pistola in mano, davanti a uno specchio, è un'altra analessi che torna nei pensieri del protagonista. Mike la vede ovunque, anche nella metro, sovrapponendola a una madre con in braccio il suo bambino. In un caso poi, il ricordo materno è un piccolo capolavoro: Mike si specchia in una pozzanghera, vedendo se stesso bambino, in una sorta di Narciso alla fonte a cui si aggiunge il fattore tempo. Suo zio Colm (Steve Buscemi), peraltro, oltre a custodire il prezioso anello di sua madre - simbolo dei simboli - ricorda a Mike quanto per ricordarla gli basti guardarsi allo specchio, a corroborare l'ennesimo riferimento alle immagini riflesse.
Per rimanere sugli aspetti iconografici, se la donna in metro rimanda ovviamente alla Vergine col Bambino, l'espiazione di Mike passa anche per san Martino e il suo mantello quando, declinato in versione moderna, parla con Samantha, una ragazzina di tredici anni che passeggia in strada poiché la madre "riceve" in casa, e lui le regala il suo giacchetto per scaldarsi, dopo essere stato trattato da anziano, perché ascolta jazz come il nonno della ragazza, che ama Michael Jackson e non conosce James Brown.
Tra le scene girate in maniera esemplare, una menzione speciale merita il lungo piano sequenza che accompagna il protagonista dal rigattiere e che, dopo la trattativa, lo conduce attraverso i locali in una zona più riservata, passando in diversi ambienti, uscendo in strada e rientrando fino alla consegna del denaro. La memoria va subito all'analoga sequenza, guarda caso, di Quei bravi ragazzi (1987), in cui la mdp di Martin Scorsese accompagnava Henry e Karen Hill nei meandri di un locale (vedi).
Anche l'incontro con Patrick (John Magaro) è clamorosamente debitore dell'immaginario scorsesiano. Mike entra in chiesa dopo vent'anni e incontra l'amico con una gag, usando la grata del confessionale, inizialmente senza dichiararsi e ordinando un menu da fast food. L'amico d'infanzia rappresenta una delle vie di Little Italy secondo la personale interpretazione del grande Marty, che ha sempre dichiarato che sarebbe potuto diventare un gangster o un sacerdote, se non regista. E poi il tema del cattolicesimo in quel contesto è sempre stato centrale nel cinema di Scorsese, basti pensare a Mean streets (1973) su tutti. Con Patrick, tra l'altro, il dialogo si incentra sul tema della redenzione, sul bisogno che Mike ha di recuperare in qualche modo ai danni fatti, perché gli anni di prigione e i nove anni ormai trascorsi lontani dall'alcol non bastano. L'amico di sempre diventa serio e gli ribadisce che non serve punirsi per essere redenti, lasciando per sottinteso che per il cattolicesimo i peccati sono da Cristo secondo la teoria della "sostituzione penale".
Davanti a Jessica (Nicolette Robinson), Mike arriva persino a inginocchiarsi, a proposito di redenzione, e il loro pomeriggio tra pranzo e chiacchiere è tristemente sereno in una New York dalle ombre lunghe, fredda e splendida. "Non sarà mai più come prima", gli dice chiaramente la donna, ma c'è ancora tanto amore e tanta tenerezza tra di loro ("ricorda almeno le cose belle" le dice lui prima di un abbraccio e di un bacio dolce ma triste). I due riescono a confrontarsi anche sulla crescita della figlia Sasha (Kat Elisabeth Williams), ormai a un passo dall'adolescenza e già causa dei brividi della madre che, come ogni mamma, non sa come gestire il passaggio da confidente e amica a nemica giurata negli anni della ribellione necessaria per la crescita.
Il rapporto tra Mike e il suo coach, Stevie (Ron Perlman), è un altro dei temi forti della sceneggiatura ed un topos del cinema pugilistico (si pensi a quanto sia presente in film come Rocky, Million Dollar Baby, ecc.). Si conoscono da 25 anni, Stevie è un sorta di secondo padre Per Mike, è lui che è riuscito a procurargli questo ritorno sul ring, ed è lui a riprenderlo, a rimetterlo in riga quando esagera, a sostenerlo e a comprenderlo.
La bellissima colonna sonora si apre a corredo del classico montaggio che mostra l'allenamento del protagonista (Rocky docet), con il sottofondo di Crucify Your Mind (Sixto Rodriguez 1970). Quando Mike incontra un clochard, gli regala delle sigarette, nelle cuffie ascolta la malinconicissima Blues Run the Game (Jackson C. Frank, 1965), una musica diegetica che si interrompe proprio per il dialogo con il sorridente Jimmy, che tifa per lui. Il riferimento alla serata chiude tutti i dialoghi della giornata.
I toni cupi tornano spesso, anche con The Book of Love (Magnetic Fields), che ascoltiamo durante l'incontro tra Mike e Jessica, mentre si arrestano con Mr. Misunderstood (Eric Church, 2015).
Sa di redenzione, complice il tema portante dell'intera pellicola, il bel montaggio alternato che unisce la salita sul ring di Mikey e Jessica che in un piano bar suona e canta Have you ever seen the rain, intramontabile hit dei Creedence (1970), che Mike adora cantata da lei, prima di correre a casa e guardare l'incontro in tv con la figlia.
Il match è la naturale conseguenza di tutto ciò che Huston ci ha proposto durante il film. Lo gira benissimo, con la mdp in continuo movimento, con qualche musica irlandese in sottofondo, con il pathos che il cinema da decenni ci ha insegnato, perché il pugilato è un genere all'interno di un genere e l'immancabile citazione stavolta arriva direttamente da Rocky II (Stallone 1979).
Il cronista che incalza, ci spiega i movimenti, le tattiche, e dice frasi come "he is still on his face", per sottolineare la strenua resistenza sotto i colpi del campione Fletcher di Irish Mikey, che non è uomo da riflettori, o almeno non può più permetterseli, dopo un errore che gli è costato caro e che, a suo avviso, non ha ancora finito di scontare.
His face... quella faccia con cui il film era iniziato e con cui, in un perfetto cerchio, si chiude. D'altronde i titoli di coda scorrono sulle note di Watch me (Labi Siffre 1970), ancora gli anni '70, ancora la malinconia, e noi che in fondo per tutta la pellicola non abbiamo fatto altro che guardare il volto di Mike, mentre lui ha scorso la sua vita in un giorno.
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