martedì 20 dicembre 2016

L'albero degli zoccoli (Olmi 1978)

Ermanno Olmi e le sue origini. Il regista racconta una storia ambientata negli ultimi anni dell'Ottocento, racchiusa in una cascina del bergamasco, nella quale vivono quattro famiglie che lavorano la terra per dare due parti del raccolto al padrone, e i cui membri sono i protagonisti di una sorta di novelliere che costituisce la trama del film.
Recitata in dialetto locale e accompagnata dalle musiche di Bach, la pellicola si aggiudicò la palma d'oro a Cannes 1978 ed è ancora oggi probabilmente l'opera più nota del suo autore.

Impossibile non pensare a Novecento (Bertolucci 1976), con cui L'albero degli zoccoli condivide la narrazione della vita rurale e in cui la differenza principale, a prima vista, sembra essere solo l'ambientazione, dall'Emilia Romagna bertolucciana alla Lombardia olmiana. I due film, però, a ben guardare, sono molto più lontani delle apparenze: Bertolucci delinea un affresco sociale più ampio, in cui le istanze dei padroni si scontrano con quelle dei contadini, in una vicenda clamorosamente politica che si incrocia con la macrostoria del paese nella prima metà del secolo; Olmi non fa nulla di tutto questo, narra una microstoria che non trascende la provincia, ma che diventa una più totale riflessione sulla vita e sull'umanità. Tra i due sembra esserci la stessa distanza che c'è tra la pittura di storia e la pittura di genere, in cui la vita dei poveri è lì sulla tela, senza rimandare più di tanto agli altri strati sociali se non implicitamente.
Ogni scena è un dipinto di genere: la recita del rosario, sgranato dai contadini seduti sulle balle di fieno e al caldo garantito dagli animali nella stalla, fa istantaneamente pensare a quel tipo di religiosità rurale che ha ne L'Angelus di Jean-François Millet (1858, Parigi, Musée d'Orsay) uno dei capolavori di sempre; i pasti a base di polenta sono apparentabili a opere come i Mangiatori di patate di Van Gogh (1885, Van Gogh, Amsterdam), e come in questa gli interni sono illuminati da candele o lampade a olio; la bellissima sequenza della pulitura del granoturco è degna de Le spannocchiatrici di Francesco Filippini (1887, Milano, Galleria d'Arte Moderna).
L'elenco potrebbe continuare a lungo, dato che durante il film Olmi ci mostra anche il mulino, in cui Pierino (Massimo Fratus) potrà fare il garzone per imparare il mestiere di mugnaio; la filanda, in cui lavorano le donne; il suono delle zampogne che nel freddo e nel buio di una serata di dicembre annuncia l'arrivo del Natale; il venditore ambulante che cerca di piazzare stoffe e abiti per le donne della cascina in occasione della festa dell'Immacolata Concezione (allora da poco istituita, con Pio IX nel 1854); l'uccisione del maiale, momento così rituale della società contadina, da essere inserito in tanti cicli artistici sui mesi sin dal Medioevo - a rappresentare dicembre o gennaio - e che compare, non a caso, anche in una scena del film di Bertolucci.
Olmi, però, entra nei dettagli con maggior realismo, accompagnando lo spettatore nella stalla e percorrendo con lui tutti i passi che portano alla morte dell'animale, non lesinando nel riprendere gli strazianti versi e la colatura del sangue.
Olmi si sofferma sulla vita cadenzata dal lavoro, dalle stagioni (anche se nel film non vediamo l'estate) e dalla religione. Tutte le azioni assumono un valore visivo che rimanda non solo alla pittura ma anche al linguaggio parlato, come nel caso in cui i personaggi mettono il fieno in cascina per l'inverno, espressione oggi perlopiù usata figurativamente, ma spesso senza conoscerne il perché, che il cineasta ci mostra nella sua accezione originaria.
La natura fa sempre il suo corso e gli abitanti della cascina ne vivono serenamente i pro e i contro: l'inverno è rigidissimo, ma nessun contadino maledice la neve, anzi, essa è parte del ciclo naturale e rappresenta una necessità per la terra che deve rinnovarsi. Questo non toglie, però, che nonno Anselmo (Giuseppe Brignoli) possa tentare di modificare in parte questa ciclicità piantando dei pomodori proprio vicino la stalla sperando di ottenere il raccolto prima del tempo, in modo da poter venderli come primizie.
Tra le altre "novelle" che contribuiscono alla storia della vita della cascina, ci sono quella di Menek (Omar Brignoli), il figlio di Batistì (Luigi Ornaghi) che il parroco del paese, don Carlo (Carmelo Silva), vorrebbe andasse a scuola;  i genitori, nonostante i sei chilometri che separano l'istituto dalla cascina ("Sés chilmotri a anda' e sés chilometri a égn" sentenzia Batistì), acconsentiranno alla richiesta. Finard (Battista Trevaini) trova un merenghino d'oro durante la festa dell'Immacolata, e lo custodisce in un luogo non così sicuro come lo zoccolo di un cavallo... 
Il rapporto con il padrone è pressoché nullo, le due realtà non si sfiorano nemmeno se non per la consegna dei raccolti, e quando il padrone aziona il grammofono per far ascoltare ai contadini la musica classica dalle finestre aperte, l'interruzione del lavoro e i volti attoniti sottolineano la straordinarietà del momento e l'incomunicabilità tra i due mondi. Altrettanto rari i contatti dei contadini con la città, o quantomeno con i centri abitati: tra questi rientrano la già citata festa dell'Immacolata, in cui trovano spazio giostre, giochi, ma anche danzatori, guaritori lestofanti, l'albero della cuccagna e, unica volta in tutto il film, si sente un discorso politico, un comizio in lingua italiana su un vagheggiato futuro democratico, che Finard ascolta da lontano, comprendendo forse che si tratta di qualcosa di importante, ma per cui non sembra ancora affatto pronto; e poi il matrimonio di Stefano (Franco Pilenga) e Maddalena (Lucia Pezzoli), naturale approdo di un poetico corteggiamento fatto di silenzi, sguardi e appostamenti nella campagna, che condurrà i due sposini "lontano" da Palosco, in un viaggio su una chiatta lungo il Naviglio grande - in realtà il fiume Oglio - per raggiungere la zia della sposa, una suora che vive nel convento di Santa Caterina della Rota a Milano. Indicativo, inoltre, come ennesimo segno di lontananza del mondo contadino dalle vicende cittadine, che i due giungano nella città durante i moti del 1898, quelli che caratterizzarono la cosiddetta "protesta dello stomaco", e non si rendano conto di ciò che stia accadendo.
Questa parte del film offre il fianco per citare alcune curiosità sulle location. Il capoluogo lombardo, di cui si intravede di scorcio il Duomo, è in parte ricreato con dei set a Treviglio e Pavia, mentre il convento della zia della sposa è quello di Santa Maria Incoronata a Martinengo, centro in cui è anche la filanda della pellicola. La cascina, fulcro della storia, venne trovata quasi per caso da Olmi nei pressi di Palosco, era la "Cascina Roggia Sale", oggi non più esistente e completamente trasformata; piazza Manzoni, nella stessa Palosco, è invece teatro della festa dell'Immacolata. La chiesa in cui si svolge il matrimonio è la parrocchiale di Sant'Alessandro a Cortenuova, la cui sacrestia peraltro è il luogo in cui don Carlo parla di Menek con Batistì e sua moglie Batistina (Francesca Morigini), mentre la facciata è quella di San Nicolò a Cividate. A Mornico al Serio, invece, si trova Cascina Castello, la residenza del padrone, dove i contadini portano il raccolto; mentre a Denna, nel bresciano, è il Mulino Muse in cui va Pierino.

La chiesa di San Rocco a Martinengo
Torniamo però alle storie dei personaggi della cascina, come la vedova Runk (Teresa Brescianini) che, rimasta sola con sei figli, non sa come sfamarli: la religione interviene anche in questi casi, con una mano aiuta, con l'altra sottrae, ma il primogenito Pierino vuol tenere unita la famiglia e si oppone all'idea di don Carlo di portare in convento le sorelle Annetta e Bettina.
La religione, in fondo, invade ogni aspetto del quotidiano - il parroco pronuncia persino la predica in dialetto - e si fonde anche con le credenze popolari e decisamente pagane. In tal senso vanno lette la scena della guaritrice che cura la malata alternando preghiera e pratiche ai limiti della magia, o il bellissimo racconto del nonno Anselmo che spiega ai nipoti come le faville del fuoco siano i diavoli che scappano dall'Inferno.
Allo stesso modo, alla tragedia di una vacca malata, unica proprietà della famiglia, si prova a porre rimedio chiamando un veterinario, ma di fronte alla risposta negativa, non c'è altra soluzione se non la preghiera o ancora meglio, il fiasco di acqua benedetta da far bere all'animale (la chiesetta in cui si reca la vedova è quella di San Rocco a Martinengo). Si impara a convivere con la speranza del miracolo, che può arrivare nelle piccole cose.
D'altronde proprio Menek, tornato da scuola, racconta dell'esistenza di piccolissimi animali presenti nell'acqua, visibili solo con "gli strumenti dei dottori", come li chiama il padre, sorpreso di come "ce ne sono ancora di cose da imparare a questo mondo". Per impararle, Minek dovrà continuare ad andare a scuola... e quando le scarpe cederanno, Batistì sarà costretto ad usare il legno di un platano per modellargli degli zoccoli nuovi, un'ennesima scena di genere, un semplice gesto di pragmatico amore paterno, che porta con sé rilevanti conseguenze per l'intera famiglia...

Chiudo questa recensione con una delle più belle dichiarazioni di Ermanno Olmi su L'albero degli zoccoli, che tanto dice sulla valenza autobiografica di un film che nella mente del maestro evoca i luoghi di Treviglio, il centro della sua infanzia, da cui, come gli sposini della pellicola, si allontanò solo quando si trasferì a Milano per studiare recitazione all'Accademia di Arte Drammatica:
"Io sono figlio di quella terra e quindi per me è come fare il ritratto della madre. La madre la riconosciamo davvero quando è perduta. Quando l'abbiamo accanto la madre è una realtà che ci spetta, non ne siamo del tutto coscienti. Quando ci viene a mancare, allora, cerchiamo nella memoria di ricomporre il suo volto, sentire le voci, avere addirittura una sensazione palpabile del ricordo...
... e questo somiglia molto al cinema"

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