Claustrofobia, ambiguità, tensione, simbologia e tanto altro: la quintessenza del cinema di Roman Polanski - qui al suo primo lungometraggio scritto con Gerard Brach, lo sceneggiatore che lo accompagnerà fino a Luna di fiele (1992) - e uno dei capolavori assoluti degli anni sessanta.
Dall'occhio di Carol all'occhio di Carol, il regista polacco racconta una storia che, nella sua perfezione circolare, non allontana mai la mdp da una splendida quanto algida Catherine Deneuve, giovanissima protagonista della vicenda con un personaggio psicologicamente instabile, che in qualche modo le si cucirà addosso negli anni immediatamente successivi con film come Bella di giorno (Bunuel 1967) e La mia droga si chiama Julie (Truffaut 1969).
Carol Ledoux è una ragazza belga che lavora come addetta alla manicure in un centro estetico di Londra, dove vive con la sorella maggiore, Hélène (Yvonne Furneaux), legata sentimentalmente a Michael (Ian Hendry), un uomo sposato, che Carol non vede con favore. I suoi problemi di socializzazione con l'altro sesso, però, si palesano anche con Colin (John Fraser), un potenziale pretendente a cui non dà molte possibilità di avvicinarsi, ma che si ostina accettando la sfida di un'impossibile conquista. Carol non fa differenza tra i modi gentili e premurosi di Colin e quelli decisamente più laidi del padrone di casa, il signor Landlord (Patrick Wymark); la morale comune, d'altronde, sembra confermare la sua ossessione: degli uomini parlano in termini dispregiativi sia le clienti del centro estetico che la sua collega Betsy, in lacrime dopo una delusione amorosa, ma che una volta ripresasi le racconta di essere andata al cinema a vedere un film di Chaplin, che da alcuni dettagli capiamo essere La febbre dell'oro (1925).
In qualche modo anche la stessa Hélène, che appare più disinvolta di lei con gli uomini, porta con sé la "colpa" di una storia d'amore fedifraga che non fa che peggiorare le convinzioni distorte di Carol. Le stranezze della ragazza, però, diventeranno ossessioni dopo la partenza di Hélène e Michael per una vacanza estiva in Italia, a Pisa, che la costringerà a rimanere sola in casa, una condizione per lei impossibile da gestire...
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Il coniglio di Repulsion e il feto di Eraserhead |
Che Repulsion abbia avuto un ruolo nel cinema successivo di diversi autori è indubbio, e qua e là è facile notare quelli che possono essere definiti dei veri e propri rimandi iconografici. La prima donna inquadrata sul lettino del centro estetico, con il volto ricoperto di argilla e due fette di cetrioli sugli occhi, per esempio, fa pensare al fantastico Brazil di Terry Gilliam (1985), così come il coniglio che non verrà mai cucinato e che appesta l'aria dell'appartamento di Carol è, per ruolo e conformazione, davvero simile al feto-feticcio di Eraserhead di David Lynch (1977), che del coniglio mantiene la testa.
Sulla pellicola dell'ex Monty Python il film di Polanski sembra aver avuto un'influenza particolarmente rilevante, soprattutto per le inquadrature deformate da lenti grandangolari presenti in Brazil e che qui si ripetono con frequenza, per esempio, quando Carol si specchia sulla superficie metallica di una teiera o osserva il pianerottolo dallo spioncino della porta. Allo stesso modo anche su Lynch Repulsion deve aver lasciato un'impronta indelebile, se tra i diversi brani della colonna sonora di Angelo Badalamenti per Twin Peaks se ne può riconoscere uno del tutto simile ad uno dei motivi composti da Chico Hamilton per il film di Polanski (suggestione, forzatura interpretativa? Forse, ma a voi il giudizio sulla somiglianza: 1 e 2).
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Sono molti i simboli iconici del film: dalle nature morte rappresentate dal coniglio già citato alle patate con le infiorescenze; dal rasoio al candeliere, dal telefono che Carol strappa dal muro dopo aver ricevuto gli insulti della moglie di Michael indirizzate alla sorella, al ferro da stiro usato senza attaccarlo alla presa... ma su tutti, ovviamente l'occhio che, come già detto apre e chiude il film, l'occhio che è mdp e quindi simbolo del cinema, come già sottolineato da L'age d'or di Luis Buñuel (1930), padre di quel cinema surrealista che rappresenta un elemento imprescindibile di tutto il cinema di Roman Polanski.
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