L'arte della felicità è un programma radiofonico che parla di filosofia, spiritualità e metempsicosi, ascoltato dal protagonista della storia, Sergio Canuto, un tassista con un passato da musicista, che guida per le strade di una Napoli sempre piovosa, quasi fosse la Los Angeles di Blade Runner.
Seguendo il suo taxi conosciamo la sua vita, fatta di ricordi legati all'infanzia e soprattutto a suo fratello maggiore, Alfredo, anch'egli musicista, che dopo aver duettato per anni con Sergio, ha seguito la fede buddista e si è trasferito in Nepal. I contatti tra i due ormai si limitano a lunghe chiacchierate via Skype ad orari davvero improbabili a causa del fuso orario.
Seguendo il suo taxi conosciamo la sua vita, fatta di ricordi legati all'infanzia e soprattutto a suo fratello maggiore, Alfredo, anch'egli musicista, che dopo aver duettato per anni con Sergio, ha seguito la fede buddista e si è trasferito in Nepal. I contatti tra i due ormai si limitano a lunghe chiacchierate via Skype ad orari davvero improbabili a causa del fuso orario.
Sergio non scende mai dal suo taxi, come dice ad un suo amico in una bella sequenza ambientata in Piazza del Gesù Nuovo, dove ferma l'auto proprio tra la facciata bugnata della chiesa omonima e l'imponente guglia dell'Immacolata. Motivo di questo comportamento, lo si scopre qualche scena dopo, è che suo fratello Alfredo è appena morto, notizia che per lo spettatore traduce improvvisamente in flashback tutte quelle telefonate. Sergio lotta con i suoi ricordi ed è per questo, forse, che al funerale passa fuori dalla chiesa andando via subito dopo che i genitori ne hanno percepito la presenza.
Il film d'animazione di Alessandro Rak, prodotto da Luciano Stella e dedicato significativamente al fratello Alfredo, è davvero bello e profondo, a patto che si sia disposti ad entrare in sintonia col suo racconto e a lasciarsi trasportare in un mondo di immagini intense, fantasiose e, spesso sognanti, come dimostrano soprattutto le tante sequenze di ricordi tradotte in immagini rarefatte.
Eppure nulla è lasciato al caso, cosicché ogni elemento è portatore di significati e appare curato con dovizia di particolari, come dimostra anche l'inserimento della firma del regista in una lattina gettata a terra, nel marasma della "monnezza" accatastata per le strade, su cui si legge "Rak Cola".
E così vale per i manifesti alle pareti: si riconoscono ad esempio i Beatles di Let it Be, ma anche la celebre copertina dalla grande bocca aperta di In the Court of the Crimson King, il primo album del gruppo rock-progressive britannico King Crimson (1969).
Un discorso a parte merita la bellissima immagine della macchinina a carica che si muove su delle rotaie, che ogni tanto ritorna durante la storia e che altro non è che una sorta di Rosebud di wellesiana memoria, gioco d'infanzia del protagonista che forse, non a caso, proprio per questo, dopo la carriera musicale ha deciso di diventare tassista.
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