venerdì 11 agosto 2023

Barbie (Gerwig 2023)

Il femminismo come non l'avevamo mai immaginato, nascosto sotto una scorza pop e glamour, che solo all'apparenza sembra contraddirlo, eppure non meno arrabbiato e tagliente, come è giusto che sia. Una scommessa pienamente vinta da Greta Gerwig, che prosegue con coerenza su una linea già tracciata con un film che stavolta semplifica e rende divulgativo (talvolta fin troppo) lo scontro tra femminismo e patriarcato, riuscendo persino a far ridere - e non è poco dato l'argomento - attraverso una commedia intelligente (trailer).
"È letteralmente impossibile essere una donna. [...] Devi essere magra, ma non troppo. E non puoi mai dire di voler essere magra. Devi dire che vuoi essere sana, ma devi anche essere magra. Devi avere soldi, ma non puoi chiedere soldi perché è volgare. Devi essere un capo, ma non puoi essere cattivo. Devi comandare senza schiacciare le idee degli altri. Devi essere una madre, ma non parlare sempre dei tuoi figli. Devi essere una donna in carriera, ma anche essere sempre attenta agli altri. Devi rispondere del cattivo comportamento degli uomini, il che è folle, ma se lo fai notare, vieni accusata di lamentarti.
Devi essere carina per gli uomini, ma non così carina da tentarli troppo o da minacciare altre donne. Non dimenticare mai che il sistema è truccato [...] Non devi mai invecchiare, non essere mai scortese, non metterti mai in mostra, non essere mai egoista, non cadere mai, non fallire mai, non mostrare mai paura, non uscire mai dalla linea. È troppo difficile! È troppo contraddittorio e nessuno ti dà una medaglia o ti dice grazie! E si scopre infatti che non solo stai sbagliando tutto, ma anche che tutto è colpa tua".
Questo monologo, pronunciato dal personaggio di Gloria (America Ferrera), arriva poco prima della fine della pellicola e ne costituisce in qualche modo il fulcro, confermando tutto il talento per la scrittura della regista californiana, già dimostrato soprattutto con l'autobiografico Lady Bird (2017), mentre il successivo Piccole donne (2019) proseguiva sulla scia delle letture al femminile, che trovano in Barbie il completamento più rutilante. E l'escalation nella carriera di Gerwig è segnata anche dai budget a disposizione: partita con un film indipendente, passata per i 40 milioni di dollari per l'adattamento del romanzo di Alcott e ora coinvolta in una megaproduzione da 100 milioni con alle spalle i colossi della Warner Bros e della Mattel.
Il monologo, si diceva, forse non è quello de La 25 ora (2002), in cui Spike Lee faceva sfogare Ed Norton davanti allo specchio, ma la sua portata, a vent'anni di distanza da quello, è forse persino superiore, come questo film che, per diversi motivi, resterà nella memoria di tutti.
Barbie è stata scelta come simbolo della vita irreale promessa alle bambine di tutto il mondo sin dal 1959 (sul modello della Lilli che nel 1952 venne introdotta in Germania, anche se ovviamente il film non parla di questa storia), cavalcando l'onda del boom economico postbellico. Quella vita in cui tutto era "femminilmente" perfetto e "femminilmente" dominante era quanto di più lontano dalla realtà si potesse immaginare, un mondo narcotizzato, ideato dagli uomini per nutrire l'ego degli uomini, eppure, in quella sacca onirica del mondo di Barbie, qualcosa può essere recuperato, almeno è questa la scommessa, promozionale della Mattel, e femminista di Greta Gerwig.
Dalla differenza dei due mondi, Barbieland e il mondo reale, la narrazione ha inizio, ponendo il primo a ovest degli Stati Uniti, non a caso lì, poiché il cinema a stelle strisce conserva, per sua natura, quella spinta oltre la frontiera e la frontiera è tradizionalmente a ovest.
Barbie (Margot Robbie) vive nel suo mondo da fiaba colori pastello e soprattutto rosa, quello della sua casa dei sogni, il cui interno è rigorosamente visibile dall'esterno, dove i bicchieri non si riempiono di liquidi, dove la doccia non sprizza acqua, dove non esistono scale (e per salire in macchina si vola dal tetto), dove ci si bacia a distanza, dove il monte Rushmore ha i profili di quattro Barbie. A popolare quel mondo ci sono le Barbie, di ogni tipo, di ogni etnia e di ogni mestiere, affiancate dai Ken, anche loro variegati, ma in grado di esistere davvero e interagire solo quando vengono guardati dalle Barbie che, a fine giornata, li salutano e si ritirano in serate per sole donne.
L'unico altro abitante di Barbieland è Allan (Michael Cera), di cui non esistono altri esemplari: è il migliore amico di Ken e anche questo è un riferimento alla reale storia della produzione di bambole della linea Mattel, poiché venne messo in commercio nel 1964, ma quell'amicizia particolare sviluppò sentimenti omofobi che ne decretarono la sua sfortuna. Riuscì negli anni '90 come membro “Happy Family”, in coppia con la Barbie incinta, Midge - anche lei citata nel film e interpretata da Emerald Fennell -, ma senza molto successo.
La noiosa perfezione di quel mondo viene messa in discussione dalla stessa Barbie stereotipo che all'improvviso, in una serata in discoteca, chiede alle sue omologhe se abbiano mai dei pensieri di morte. Tutto si interrompe, musica compresa, nel panico degli astanti. È il punto di rottura della situazione iniziale, che porterà alla piena coscienza di sé della protagonista, secondo il più classico degli schemi narrativi, e poi ne scaturirà un nuovo equilibrio, come sintesi della dialettica messa in scena. Tutto questo passerà per il viaggio (altro motivo classico) di Barbie nel mondo reale, al fianco di un invadente Ken (che impone la sua presenza pur se non desiderata), dove i due vivranno le situazioni più comiche per la loro stessa inadattabilità al contesto, condita da più arresti, per poi tornare, completamente trasformati, a Barbieland...
Greta Gerwig dà il meglio di sé nella scrittura, e la sua formazione da sceneggiatrice è sempre ben evidente: tutti i personaggi risultano delineati con grande attenzione. La Barbie stereotipo che vive la sua crisi quando sente il proprio alito cattivo al risveglio, quando la doccia è fredda e il latte scade, quando vede i propri talloni ancorati al terreno e non più fissamente sulle punte, e i primi accenni di cellulite sulle sue cosce perfette, vedendosi brutta, anche se Margot Robbie, come non manca di sottolineare la voce off che entra prepotentemente in scena in questo caso, squarciando la dimensione del racconto, non è davvero l'esempio migliore per descrivere tale sentimento in maniera credibile. Il Ken principale (Ryan Gosling), insicuro, invadente, geloso, egocentrico, che vede nel patriarcato, scoperto nel mondo reale, una via di salvezza alla sua sottomissione sociale in Barbieland, che trasformerà in Kendom (il regno dei Ken, uno dei vari neologismi usati, come KenErgy o l'espressione I'm Kenough che leggiamo su una sua maglietta). Qui, naturalmente, le Barbie esistono solo per nutrire l'ego maschile, passando da donne in carriera a incapaci ragazze bisognose di ogni aiuto degli uomini, quasi vittime di un sortilegio.
Ken, preso da un vero e proprio delirio di onnipotenza sconfina nella vanagloria più volgare, esemplate dalla pelliccia bianca indossata, degna di Puff Daddy, e nell'occupazione della casa di Barbie che diventerà l'allitterante e inutilmente sinonimica Mojo Dojo Casa House, vera e propria fiera del kitsch e del cattivo gusto. Altro elemento portante della comica mascolinità rappresentata nel film sono i cavalli (e si torna agli stereotipi statunitensi nonché al cinema di frontiera e al western), che compaiono ovunque, nelle porte da saloon della casa, negli schermi e nei profili del monte Rushmore, adattato alle nuove esigenze. Indimenticabile la ricerca del lavoro nel mondo reale da parte di Ken che, una volta compreso di essere uomo nel "posto giusto", dove il patriarcato viene applicato come sempre, solo nascosto meglio (sic), pretende di essere un manager, un chirurgo e non solo, sorprendendosi dei rifiuti per la mancanza di quei "dettagli" che si chiamano titoli di studio e competenze.
E poi la Barbie stramba (Kate McKinnon), quella che spiega alla Barbie stereotipo di dover partire per il mondo reale, mettendola di fronte alla scelta simbolica (e anch'essa clamorosamente commerciale), tra i tacchi e le comode Birkenstock, che assurgono a scarpa della vita reale, e va ricordato che nel 2021 il marchio dei fratelli Alex e Christian Birkenstock è stato venduto alla società franco-statunitense L Catterton, sostenuta dal gruppo francese di beni di lusso LVMH (Moët Hennessy Louis Vuitton).
Molto importanti ai fini della storia i due personaggi che fanno il percorso inverso di Barbie e Ken, viaggiando dal mondo reale a Barbieland: l'adolscente Sasha (Ariana Greenblatt), che non ama il mondo Barbie come le sue amiche, e devasta l'ego della protagonista, vomitandole addosso tutti i giudizi negativi su ciò che per decenni ha rappresentato la bambola più famosa del mondo, fino a darle della fascista; sua madre, Gloria, che invece con quella bambola è cresciuta e ci è rimasta romanticamente e malinconicamente affezionata, e che entrerà in simbiosi con Barbie, accompagnandola nella fase più complessa della vicenda. Macchiettistico il Consiglio d'Amministrazione della Mattel che, nel mondo reale, è costituito da soli uomini e cerca di rimettere letteralmente la Barbie stereotipo nella sua scatola per riportarla a Barbieland:
capitanato dall'amministratore delegato Mattel (John William Ferrell), che parla per acronimi per darsi un tono, fino al comico eccesso di pronunciare EOD per "End Of the Day"; è seguito da personaggi anonimi e da Aaron Dinkins, un giovane dipendente nei cui panni recita Connor Swindells, uno dei tre attori diventati famosi con la serie tv Sex Education assoldati per Barbie (gli altri sono la Barbie fisica, Emma Mackey, e il Ken nero, Ncuti Gatwa). Proprio nei meandri Mattel, in cui è confinata, infine, c'è spazio per Ruth Handler (Rhea Perlman), che ideò la bambola e che nel film ha un ruolo un po' spielberghiano nel finale moraleggiante, che per fortuna viene stemperato dall'elemento collodiano che rende Barbie un po' Pinocchio, riportando tutto sul piano della fiaba filosofica e stimolante.
Diversi i riferimenti cinematografici e cult della pellicola, anche oltre l'immaginario Mattel. Su tutti la sequenza che mette in parallelo l'origine dell'uomo di 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1968) e un ideale origine del rapporto tra la donna e la bambola, in versione femminista: le bambine, tra le rocce e il silenzio assoluto, rotto dalle note di Così parlò Zarathustra di Strauss, si ritrovano ad ammirare una Margot Robbie statuaria e gigante al posto del monolite kubrickiano, e iniziano a roteare e a usare come arma proprio le bambole, una delle quale emula la più celebre ellissi della storia del cinema che, una volta in cielo, invece di diventare un'astronave, si trasforma nella scritta BARBIE. Le immagini e i tempi sono esattamente sovrapponibili (vedi)! E a Kubrick si riferisce anche la giovanissima Sasha, che ironizza sull'empatia tra la madre e Barbie citando la luccicanza di Shining (1980).
Ai cultori dei Monty Python, infine, non sfuggirà un dettaglio davvero inaspettato. Quando i Ken conquistano il potere e stabiliscono la loro versione buffa e parossistica di patriarcato a Barbieland, avanzano galoppando su immaginari destrieri, e lo fanno nello stesso modo in cui i geniali comici britannici galoppavano in Monty Python e il Sacro Graal (Gilliam - Jones 1975, vedi).
Anche la colonna sonora è degna di nota e merita attenzione. Tra i brani non possono mancare capisaldi pop a tema, come Barbiegirl degli Aqua, rivisitata da Nicki Minaj & Ice Spice o Girl Just Wanna Have Fun di Cindy Lauper, o altre rivistazioni come Push dei Matchbox Twenty, tormentone della fine anni '90, cantata da Ken-Gosling. Molto azzeccate anche le canzoni create appositamente per il film. Ci sono Billie Eilish con What Was I Made For, Sam Smith con Man I Am, e brani disco come Dance the Night (Dua Lipa) o Barbie Dreams (Fifty Fifty e Kaliii).Tra le più divertenti, però, sicuramente Pink, che inneggia al colore dominante di Barbieland, e soprattutto la ballata dalla ricca coreografia I'm just Ken, con Ryan Gosling che interpreta magnificamente l'uomo costretto al ruolo subalterno ("I'm always number two") e che rivendica il diritto alla propria identità e ai propri sentimenti, nella speranza di non essere condannato a una vita di bionda fragilità ("Is it my destiny to live a life of blonde fragility?"). 
Che piaccia o no, si tratta di un film epocale, quello in cui il femminismo diventa davvero per il grande pubblico, in un compromesso - inevitabile come per tutto ciò che diventa popolare in ambito capitalistico - che di certo riporterà la Barbie Mattel a vette stratosferiche di vendite. Che poi i risultati si vedano anche a livello sociale sembra difficile, ma la speranza di un passetto in più con i talloni ben piantati a terra è quella di Greta Gerwig e di tutti coloro che vogliono un mondo più equo, in cui i narcisismi di donne e uomini - inevitabili anch'essi - possano scontrarsi alla pari.

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