Ancora ai tempi di Filmscoop... recensione del 26 gennaio 2004.
Film d'assoluto valore per gli amanti del cinema "parlato" e di riflessione di matrice francese.
Denys Arcand, già regista di ottime pellicole come Il declino dell'impero americano, realizza un capolavoro del genere, un film cinico quanto serve (da sottolineare le stilettate contro gli USA, contro i sindacati, contro Berlusconi, ecc.), lontano dai benpensanti resi ubriachi dal bombardamento mediatico. Idee personali, quelle del regista, ma finalmente fuori dal coro.
Soggetto bellissimo quello del film franco-canadese che ha riscosso notevoli consensi all'ultima edizione della Croisette. In poche parole lo si potrebbe definire un film sul senso della vita (senza scomodare i grandi Python) e sulla migliore morte che ognuno può immaginare per se stesso. Non va dimenticato, però, che la pellicola può essere letta anche come opera sull'amicizia, sulla cultura, sulla capacità di vivere, e tanto altro.
Rémy, professore universitario amante della vita e delle donne, poco più che cinquantenne (come Arcand), soffre di un male incurabile. La ex-moglie gli è vicino. È lei a chiamare i figli: Sebastian, uomo d'affari di successo che da Londra, nonostante il contrastato rapporto con il padre che gli rimprovera una formazione totalmente diversa dalla sua, arriva a Montreal con la fidanzata, mentre la sorella, in navigazione nel Pacifico, può mandare solo alcuni videomessaggi. Dopo i primi battibecchi, Sebastian trasforma gli ultimi giorni di vita del padre in uno dei periodi più belli della sua vita, trovando con lui un legame di rara profondità. Riesce a contattare gli amici e le amanti più care a Rémy e a farli arrivare al capezzale del padre; privo di scrupoli sul come ottenere la felicità del genitore, non si ferma davanti agli intoppi burocratici grazie anche ad un incredibile savoir faire capitalistico che gli permette di avere il meglio in ogni senso (stanza privata in un'ala dell'ospedale allestita per l'occasione, ambulanze private per il trasporto dal Canada agli Stati Uniti, eroina per alleviare i dolori, ecc.).
Film di pochi attori, ma tutti bravissimi.
Rémy Girard, il protagonista, è uno degli interpreti più importanti del Quebec: il suo personaggio alla fine risulta una via mediana tra lo Snaporaz di Mastroianni per La città delle donne e il Bertrand Morane di Charles Denner nel truffautiano L'uomo che amava le donne. Dorothee Berryman, l'ex moglie, un'attrice versatile e con la passione per il jazz: a tratti impressionante la sua somiglianza con la grande Sabine Azema. Di grande livello anche le interpretazioni di Stephane Rousseau (il figlio), Marie-Josée Croz, vincitrice della Palma d'Oro come miglior attrice (la tossicodipendente che "aiuta" Rémy), Johanne Marie Tremblay (la suora dell'ospedale che si affeziona a Rémy), Louise Portal e Dominique Michel (le ex-amanti), Pierre Curzi, Yves Jacques (gli amici), Marina Hands (la nuora).
Quel che sorprende è la grande capacità di orchestrazione di Arcand, che gestisce tutto il cast alla perfezione: ognuno dei personaggi recita almeno una battuta che lo caratterizza e che ci dà la possibilità di conoscerlo meglio, più a fondo. Nessuno alla fine risulta una silhouette bidimensionale ma sempre un personaggio a tutto tondo.
Per noi italiani una battuta che ci tocca da vicino è quella che uno dei personaggi rivolge all'attuale Presidente del Consiglio. Ad un'intervista su Repubblica (21/05/2003) Arcand, interrogato a riguardo, ha risposto: "Volevo far piacere ai miei amici italiani che si lamentano della situazione politica attuale. Ma in America c'è Bush, e la gara di stupidità tra Bush e Berlusconi è sempre aperta".
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