sabato 30 novembre 2013

L'arte della felicità (Rak 2013)


L'arte della felicità è un programma radiofonico che parla di filosofia, spiritualità e metempsicosi, ascoltato dal protagonista della storia, Sergio Canuto, un tassista con un passato da musicista, che guida per le strade di una Napoli sempre piovosa, quasi fosse la Los Angeles di Blade Runner.


Seguendo il suo taxi conosciamo la sua vita, fatta di ricordi legati all'infanzia e soprattutto a suo fratello maggiore, Alfredo, anch'egli musicista, che dopo aver duettato per anni con Sergio, ha seguito la fede buddista e si è trasferito in Nepal. I contatti tra i due ormai si limitano a lunghe chiacchierate via Skype ad orari davvero improbabili a causa del fuso orario.
Sergio non scende mai dal suo taxi, come dice ad un suo amico in una bella sequenza ambientata in Piazza del Gesù Nuovo, dove ferma l'auto proprio tra la facciata bugnata della chiesa omonima e l'imponente guglia dell'Immacolata. Motivo di questo comportamento, lo si scopre qualche scena dopo, è che suo fratello Alfredo è appena morto, notizia che per lo spettatore traduce improvvisamente in flashback tutte quelle telefonate. Sergio lotta con i suoi ricordi ed è per questo, forse, che al funerale passa fuori dalla chiesa andando via subito dopo che i genitori ne hanno percepito la presenza.

Ed è così, tra questi sentimenti contrastanti, l'amore, la sofferenza, l'incomprensibilità della fuga del fratello, Sergio scarrozza diversi personaggi sul suo taxi, mai banali e con cui intavola discorsi che raggiungono sempre temi di alta filosofia. Così avviene con lo zio Luciano, uomo con cui i due fratelli sono cresciuti, che rispetto al funerale afferma un perentorio "lasciamole agli altri le facce da funerale", ma che, soprattutto, alla domanda in parte invidiosa del nipote "chi ti ha insegnato a vivere in pace coi tuoi ricordi?", dà la risposta più ironica del film: "forse l'arteriosclerosi". Lo stesso si dica di un uomo che racconta a Sergio la sua vita lavorativa, iniziata con l'apertura di uno "scasso", fatta di iniziale miseria, poi trasformata in successo dall'incontro casuale con un giovane artista statunitense, che con i suoi rottami ha creato opere d'arte, tra cui un'indimenticata araba fenice, evidente allegoria di come dai rifiuti si possa generare nuova vita. E ancora Pinotta, una ricchissima signora rimasta vedova e che si accompagna ad una mal tollerata badante, ma che come donna di una certa età ricorda la sua infanzia da figlia unica, dicendo a Sergio che "crescere da soli è come giocare a pallavolo contro il muro". E, infine, lo speaker de L'arte della felicità, che affronta con ferocia l'analisi della società italiana, un paese per vecchi, dove non c'è speranza finché "gli uomini migliori lavorano al soldo dei peggiori", e in cui i giovani devono accettare che si possa essere felici anche senza futuro, concentrandosi quotidianamente sul presente, giustapponendo un momento dopo l'altro, nell'attesa di un'apocalisse e di una morte di massa, che nell'immaginario partenopeo non può non rimandare al Vesuvio, in un'altra sequenza onirica che nella distruzione della città non dimentica il riferimento all'altare a Diego Armando Maradona in via San Biagio dei Librai.
Al concetto di presente infinito rimanda, infine, anche la lettera di addio scritta prima della morte da Alfredo al fratello minore, che per tutta la durata del film vediamo sul cruscotto della macchina, ma che Sergio legge solo alla fine, e grazie alla quale ottiene alcune fondamentali risposte alle sue domande, che lo libereranno per vivere il suo futuro.

Il film d'animazione di Alessandro Rak, prodotto da Luciano Stella e dedicato significativamente al fratello Alfredo, è davvero bello e profondo, a patto che si sia disposti ad entrare in sintonia col suo racconto e a lasciarsi trasportare in un mondo di immagini intense, fantasiose e, spesso sognanti, come dimostrano soprattutto le tante sequenze di ricordi tradotte in immagini rarefatte. 
Eppure nulla è lasciato al caso, cosicché ogni elemento è portatore di significati e appare curato con dovizia di particolari, come dimostra anche l'inserimento della firma del regista in una lattina gettata a terra, nel marasma della "monnezza" accatastata per le strade, su cui si legge "Rak Cola".
E così vale per i manifesti alle pareti: si riconoscono ad esempio i Beatles di Let it Be, ma anche la celebre copertina dalla grande bocca aperta di In the Court of the Crimson King, il primo album del gruppo rock-progressive britannico King Crimson (1969).
Un discorso a parte merita la bellissima immagine della macchinina a carica che si muove su delle rotaie, che ogni tanto ritorna durante la storia e che altro non è che una sorta di Rosebud di wellesiana memoria, gioco d'infanzia del protagonista che forse, non a caso, proprio per questo, dopo la carriera musicale ha deciso di diventare tassista.

Altrettanto significativo che quella macchinina deragli dai suoi binari, divenendo libera e abbattendo carte da gioco e miniature del subbuteo (rigorosamente napoletane le prime e con la maglia azzurra le seconde), quando incontrerà un anello, lo stesso che nella storia principale Sergio riceve in dono da Antonia, una cliente che non può pagare la sua corsa altrimenti. Proprio la giovane cantante, che in una scena vediamo esibirsi al San Carlo e che Sergio incontra all'inizio e alla fine del film, sembra essere la speranza per la nuova vita del protagonista che, forse, anche grazie a lei riprenderà ad occuparsi di musica, come sembra suggerire l'onirica sequenza in cui Sergio, in un mondo alla Myazaki, in cui la natura vince su tutto il resto, si ritrova in un bosco, esce dal suo taxi che va in fiamme e, dopo aver incontrato un cervo, raggiunge quello che appare un cortile di un tempio tibetano, dove suona un piano letteralmente "avvinghiato" dai rami di un albero centenario.

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