Maryam Moghaddam, attrice, sceneggiatrice e regista, stavolta resta dietro la mdp e gira un film davvero bello da ogni punto di vista: ben girato, ben scritto, ben recitato e con un forte valore politico tra le pieghe di una storia che racconta con tenerezza gli anni della vecchiaia (trailer).
Per l'età trattata, la pellicola può essere accostata al formidabile Amour (Haneke 2012), che però era raccontato in maniera molto differente e con nessun tipo di componente politica. Lì i personaggi interpretati da Trintignant e Riva, peraltro, erano marito e moglie molto anziani, in lotta con le difficoltà della loro età, mentre qui il fattore sorpresa di un incontro fortuito con un innamoramento inaspettato è il fulcro della storia. Quello un film drammatico e filosofico, nelle tipiche corde del suo autore, questo uno tragicomico, in cui si ride, si piange, ci si commuove.
Mahin (Lily Farhadpour) è una donna di settant'anni, vedova da trenta, che non si è mai risposata. La sua vita quotidiana è fatta soprattutto di amiche, anche perché i figli vivono lontano dall'Iran, e l'assenza di un uomo non sembra essere un problema per lei. Alcune amiche hanno le idee chiare sull'altro sesso e, quando una di loro si lamenta di dover gestire tutto da sola, c'è chi dice "gli uomini sono inutili: starebbe qui a darle ordini". Aver lavorato come infermiera, inoltre, vale a Mahin le continue telefonata dell'immancabile amica ipocondriaca, Pouran, che la chiama ogni mattina per parlarle dei suoi acciacchi, dei suoi esami, della convinzione di avere un cancro.
Mahin (Lily Farhadpour) è una donna di settant'anni, vedova da trenta, che non si è mai risposata. La sua vita quotidiana è fatta soprattutto di amiche, anche perché i figli vivono lontano dall'Iran, e l'assenza di un uomo non sembra essere un problema per lei. Alcune amiche hanno le idee chiare sull'altro sesso e, quando una di loro si lamenta di dover gestire tutto da sola, c'è chi dice "gli uomini sono inutili: starebbe qui a darle ordini". Aver lavorato come infermiera, inoltre, vale a Mahin le continue telefonata dell'immancabile amica ipocondriaca, Pouran, che la chiama ogni mattina per parlarle dei suoi acciacchi, dei suoi esami, della convinzione di avere un cancro.
L'introduzione della Repubblica islamica, voluta da Khomeini nel 1979, rende quelle donne le ultime a essere state ragazze libere in Iran, come non manca di far notare a Mahin una giovane fermata dalla polizia insieme ad altre coetanee che risultano truccate e che non portano il velo dell'ḥijāb come si dovrebbe, lasciando che un ciuffo di capelli ne esca.
La polizia morale che imperversa per le strade, fermando chi e quando vuole, è il vero spauracchio delle donne di Teheran. La stessa Mahin parlando dell'Hotel Hyatt, oggi diventato Hotel Libertà, ricorda quando ci si esibivano tanti artisti (cita persino Al Bano e Romina) e quanto quel nuovo nome sia fuorviante, poiché decisamente lontano da ciò che il paese è diventato: "ma è davvero libertà questa?"
In questo sistema di pensiero e all'interno di questa comunità fa ancora più effetto che una donna come Mahin scelga il tassista per tornare a casa, osservando gli avventori di una trattoria in cui ha appena mangiato con le solite amiche. L'autodeterminazione e l'intraprendenza di questa donna, tanto più in quel contesto, sono sorprendenti e anche l'uomo scelto, Faramarz (Esmail Mehrabi), ne resta colpito, soprattutto quando si sente chiedere di cenare insieme da lei quella sera stessa.
Mahin, da perfetta adolescente, dice bugie persino alla figlia che la chiama al telefono, è maliziosa, scherza ed è sempre molto diretta. Dal canto suo Faramarz racconta la sua storia di veterano dell'esercito, un tempo suonatore di tar ai matrimoni (una sorta di liuto persiano a sei corde), a cui il governo ha saputo offrire come massimo riconoscimento una tomba gratis, che lui ha puntualmente rifiutato.
Entrambi sono stati sposati - e ci mancherebbe in quel tipo di società - ma entrambi sono ora vedovi. Faramarz, però, non lo ricorda come un bel periodo quello del matrimonio, tanto più che la moglie era molto credente, una caratteristica che, non esita a precisarlo, "mi ha reso la vita un inferno".
La paura dei due protagonisti è la stessa, l'idea di morire da soli non fa dormire loro sonni tranquilli, e a questo Faramarz aggiunge l'angosciosa sensazione del "nessuno mi vede più", una sorta di dissoluzione fisica determinata dall'attenzione degli altri.
La loro serata è bella, piena di condivisione, di calore, tra chiacchiere, musica, danza, un po' di vino, persino un selfie (sfocato e fuori quadro, neanche a dirlo), in una parola libera, in un mondo che libero non lo è affatto, e a ricordarglielo ci sono gli occhi indiscreti di una vicina, che viene a controllare cosa stia succedendo. Le risate aumentano poi, pensando alla polizia morale, che se li trovasse nella stessa casa potrebbe solo costringerli a sposarsi, nel paradosso più divertente di quella situazione.
Gli imprevisti, però, sono sempre in agguato e la mistura di insicurezze, desiderio, chimica e alcol può far virare la "serata più bella della vita" in qualcosa di completamente diverso, trasformando una storia d'amore in un dramma cupo e surreale, sottolineato anche dalla mdp che inizia a girare nell'appartamento a 360°.
Ed è lì che la torta del titolo originale e il giardino del titolo italiano diventano i protagonisti della vicenda per motivi opposti, dimenticata e intonsa la prima, centrale e accogliente il secondo.
Una frase della sceneggiatura resta addosso più forte di tutte, quella che segna l'innamoramento vero, quando si pensa al tanto tempo che si sarebbe potuto condividere con la persona amata: "perché non mi hai trovato prima?", dice Faramarz a Mahin, con la tenerezza e la delicatezza del suo personaggio, sorpreso, spaesato, in una parola innamorato.
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