Il cinema di Antonio Pietrangeli con Adua e le compagne tocca la sfera della Legge Merlin. Era il 20 febbraio 1958 quando le case di tolleranza chiusero, e il regista romano, poco dopo, iniziò a lavorare ad un film, scritto insieme a grandi nomi quali Ruggero Maccari, Ettore Scola e Tullio Pinelli. che prende le mosse proprio da quell'avvenimento, analizzandone le conseguenze con il suo tocco leggero ma non per questo superficiale, attraverso la storia di quattro donne totalmente differenti (guarda il film).
Adua (Simone Signoret), la più esperta e intraprendente; Lolita (Sandra Milo), civettuola ed evanescente; Marilina (Emmanuelle Riva), facilmente irritabile e istintiva; e Caterina, detta Milly (Gina Rovere), popolana e ruspante, vivono l'ultimo giorno di lavoro con le altre ragazze del bordello, ma in quelli seguenti si trasferiscono in un casale sull'Appia Antica, dove sperano di sbarcare il lunario aprendo una trattoria in cui, una volta avviata, puntano a offrire anche le loro grazie al piano di sopra...
Il sottotesto è facilmente leggibile: la legge Merlin ha eliminato le case chiuse, è vero; ha scaricato la coscienza di uno Stato che non sarà più connivente con la prostituzione; ma non si è posta il problema di come vivranno adesso le donne, per giunta schedate, che lavoravano in quelle case, lasciandole sole con il loro destino. Le ragazze, infatti, che aspirano a diventare indipendenti, dovranno forzosamente legarsi ad un socio, il cinico e spietato Ercoli (Claudio Gora), che otterrà la licenza altrimenti impossibile dato il loro passato e che, di fatto, chiederà loro un milione di affitto al mese, costringendole allo stesso ruolo subalterno precedente alla legge Merlin: parafrasando Tomasi di Lampedusa, "era cambiato tutto per non cambiare niente".
Adua è indubbiamente la protagonista della vicenda narrata: è lei che propone il trasferimento in campagna alle altre; è lei il punto di riferimento del gruppo, nonostante qualche scontro, anche duro, soprattutto con Marilina; ed è lei che si lascia andare ad uno sfogo paternalistico sulle compagne che ne riassume i caratteri: "ma dove vi ho pescate? V'ho scelte nel mazzo! Quella che se ne va [Marilina, appunto, dopo un acceso diverbio sulla maternità], l'altra che è peggio di un mulo [Caterina] e tu che hai paura dello scuro [Lolita che, spaventata, va nella sua camera per cercare conforto]".
Nessuna può cambiare la condizione di partenza: Adua è cinica e disillusa e, quando conosce Pietro (Marcello Mastroianni) e si lascia andare all'amore, viene puntualmente punita; Marilina ha un bambino che ama, Carletto, ma i suoi sensi di colpa la attanagliano; Caterina allontana il ragioniere sardo Emilio (Antonio Rais) - cliente affezionato della trattoria non certo per la cucina ma perché interessato a lei -, convinta che non possa sopportare il suo passato e, in fondo, non sbaglia; Lolita non sembra porsi domande di alcun tipo e vive nella sua vacua leggerezza.
Il film è completamente ambientato a Roma ed è parte del piacere della visione addentrarsi nei luoghi scelti per le diverse sequenze.
Sin dai titoli di testa l'attenzione è rubata da quelle scalette con uno dei celebri "nasoni" romani, dove passano alcuni degli ultimi clienti del bordello. Siamo in via degli Ibernesi, ripresa dall'incrocio con via Baccina, a pochi passi dal celebre muro tagliafuoco che separava i fori dal quartiere popolare della Suburra. E proprio lì vicino, sulla salita del Grillo, passa Marilina più avanti nel corso del film, quando torna a casa ubriaca e viene rimbeccata dalla domestica con un sentenzioso "questa si berrebbe pure il vino della messa". Nell'inquadratura iniziale della strada, peraltro, si vedono bene sia la targa di via Campo Carleo, che incrocia la piazza del Grillo, sia il campanile di Santa Caterina da Siena a Magnanapoli.
L'arrivo di Marilina a Largo Magnanapoli |
E proprio qui Marilina, prima di arrivare a casa, scende da un furgoncino del quotidiano Il Tempo, il cui conducente l'apostrofa con un romanissimo “A matta, ma 'ndo vai?". Il lungo peregrinare notturno della ragazza, dopo il litigio con Adua, è l'occasione per mostrare altri luoghi della città: la vediamo andare ad una festa in un appartamento di palazzetto Giusti, dal cui terrazzo vediamo uno scorcio della Fontana di Trevi da sinistra, e passeggiare nei pressi dei mercati traianei. Poche centinaia di metri più in là, in piazza della Pilotta, le ragazze scoprono di essere finite sul giornale, dopo essere uscite dalla questura.
Nel centro di Roma si svolge anche l'incontro delle quattro per decidere le modalità del trasferimento nel casale e avviare la nuova attività: Adua e le altre si vedono prima in un bar di piazza del Popolo, che la mdp immortala ancora meglio quando si alzano per salutarsi e andare via, e poi a via Veneto, dove sono in banca per versare i soldi per la ristrutturazione di fronte al famoso Hotel Excelsior, visibile alle spalle di Lolita che sta per entrare nell'istituto di credito.
Caterina a Capo di Bove |
Allontanandosi dal centro della città, invece, il casale in cui vanno a vivere le ragazze è sull'Appia Antica, proprio ad un passo da Capo di Bove e dalla mole della tomba di Cecilia Metella, dove infatti passeggia Caterina in una serata illuminata dalla luna, che rappresenta uno dei momenti più poetici del film, tanto più che la ragazza è occupata a catturare una lucciola, riferimento onomastico e metaforico del mestiere suo e delle altre protagoniste. Ed è la stessa Caterina a ricevere la proposta di matrimonio di Emilio tra i palazzi allora in costruzione in via Meropia, nel quartiere Ardeatino.
La stanza di Piero affaccia sulla ferrovia Ostiense |
In zona Ostiense, invece, su via Marco Polo, è l'appartamento di Piero, che dà sulla ferrovia, visibile dalla finestra, quando il personaggio chiama Adua a telefono, e che vediamo anche dall'esterno, quando la donna lo va a trovare di sera.
La location più "cinefila" di tutte, infine, è quella in cui passeggia Simone Signoret alla fine della storia: siamo nel tratto del lungotevere che costeggia l'istituto del San Michele, a partire dall'angolo in cui il giovane Sergio Leone era la comparsa vestita da prete in Ladri di biciclette e dove camminavano Totò e Anna Magnani in Risate di gioia, il film di Monicelli uscito lo stesso anno di Adua e le compagne.
La colonna sonora non ruba la scena, ma in alcuni momenti si fa apprezzare particolarmente, peraltro in sequenze in cui la regia di Pietrangeli dà il meglio di sé. È il caso di Besame mucho, che le ragazze cantano in uno dei rari momenti di relax nel casale, mentre le ombre proiettate dalle candele si allungano sui muri, ma anche di Sleep Walk, che fa da sottofondo alla scena di Marilina che torna a casa ubriaca e indolente e, sdraiata sul letto, guarda le macchie del soffitto cercando quelle che evidentemente sin da bambina aveva identificato come una gallina e dei pulcini. Va, inoltre, detto che tra i clienti della trattoria compare anche Domenico Modugno che, cedendo alle richieste di tutti, prende la chitarra e canta Più sola.
Il regista si lascia andare a belle panoramiche e ad altri bei movimenti di macchina, ma è decisamente sorprendente quanto alcuni momenti della pellicola facciano pensare ad alcuni capolavori del cinema italiano passato e futuro. Il personaggio di frate Michele (Duilio D'Amore), per esempio, è del tutto simile all'altrettanto bonario religioso di campagna de Le notti di Cabiria (Fellini 1957). In un dialogo tra lui e Marilina c'è gran parte del senso del film: lui la invita a pregare "ché la preghiera fa diventare più buoni", ma la ragazza risponde duramente, "e certo, così quando sei diventato più buono arriva uno che non ha pregato ed è proprio lui che ti frega... voialtri predicate, parlate latino, dite messa, ma che ne sapete della vita?", per chiudere poi, di fronte all'ottimismo del prete sul futuro - "non ha importanza quello che eravate conta quello che siete, quello che sarete" - "glielo dico io quello che saremo... quello che eravamo, perché? Perché è così".
È, invece, del tutto simile al funerale simbolico e goliardico con cui viene salutata la fine del proibizionismo in C'era una volta in America (Leone 1984), quello che viene celebrato in strada il giorno della definitiva chiusura delle case di tolleranza: e chissà che Sergio Leone non avesse presente proprio questo precedente quando pensò a quella sequenza.
Adua e le compagne, con i suoi sessant'anni, ha inevitabilmente perduto la carica politica e di denuncia che doveva avere all'uscita, ma resta tuttora valida la grande capacità del suo regista di analizzare l'universo femminile e l'emarginazione delle donne di quegli anni, un tema basilare nella sua filmografia passata, Nata di marzo (1958), e futura, La parmigiana (1963) e Io la conoscevo bene (1965). Non a caso Antonio Pietrangeli è stato recentemente ribattezzato, parafrasando Truffaut, "il regista che amava le donne", nel libro di Piera Detassis, Emiliano Morreale e Mario Sesti (ed. Sabinae, 2015), e Adua e le compagne ne è una splendida testimonianza!
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