lunedì 7 novembre 2022

Gli orsi non esistono (Panahi 2022)

Notte. Esterno. La luce giallastra di un lampione illumina la strada. La mdp riprende a grande distanza i due uomini che parlano, mentre uno dice all'altro di proseguire tranquillo perché "Gli orsi non esistono", "sono storie inventate per spaventarci".
Si tratta probabilmente dell'unica concessione estetica ad un film rigoroso, durissimo, che racconta un episodio di follia condivisa, in cui il contesto sociale determina l'aberrazione del pensiero e l'assurda situazione di difficoltà che si ritrova a vivere il protagonista. Meritato premio speciale della giuria alla 79° mostra del cinema di Venezia (trailer).
Jafar Panahi è l'uomo che deve proseguire il cammino dopo quell'incrocio, regista del film e regista, nella finzione, del metafilm a cui sta lavorando da remoto, da un piccolo paese al confine dell'Iran, connesso con attori e troupe in Turchia. Per sua sfortuna, però, tra le immagini che ha immortalato, sembra esserci, oppure comunque ne sono convinti in molti, anche quella di una giovane coppia "illecita". Gazhal e Sulduz, infatti, si amano, ma la giovane ragazza è promessa ad un altro, Jagub, il cui nome è stato associato a lei quando le venne tagliato il cordone ombelicale.
In questa pratica c'è tutta la tradizione della retrograda mentalità del paesino iraniano, che chiederà al regista persino di giurare sul Corano, tanto per condire di ulteriori aberrazioni religiose la gestione della giustizia. 
Sulla considerazione della donna, poi, è illuminante la frase che un'anziana signora rivolge a Panahi che chiede chi vada a sinistra e chi a destra nelle cerimonie di fidanzamento: "da noi si dice che le donne vengono dal lato sinistro dell'uomo... e poi che ne so?", ed è pleonastico ricordare la negatività della parte sinistra nell'immaginario ancestrale di tutte le culture, basta ricordare i vari significati di "sinistro" anche nella nostra lingua...
Panahi non viene lasciato in pace dai capi del villaggio, dallo sceriffo del piccolo centro abitato e, soprattutto, dall'interessato, Jagub, convinto di aver subito un torto e di non essere abbastanza tutelato nei suoi incredibili diritti dalla comunità.
Al film che sta girando, peraltro, partecipano anche Zara e Baktiar, in attesa dei passaporti falsi per superare il confine e andarsene dopo dieci anni. Panahi qui gioca ancora col metacinema e nell'inquadratura ci mostra prima i due che recitano (e tutto ci sembra reale), poi l'interruzione della ripresa con l'ingresso di un tecnico, che inizia a parlare con la voce apparentemente off del regista, e poi, attraverso un carrello all'indietro, il campo visivo diventa quello del computer che sta usando proprio Jafar Panahi per seguire le riprese, guidate da remoto. Una breve sequenza da manuale per mostrare i vari gradi della finzione filmica. E, non a caso, più avanti, sarà proprio Zara che, togliendosi la parrucca davanti alla mdp, dirà infastidita "a questo punto è tutto finto. Siamo diventati tutti falsi".
Gli orsi non esistono
 è in fondo una sorta di Romeo e Giulietta iraniana dei nostri giorni, che ci permette di comprendere come si possa ancora pensare di determinare la vita delle persone a certe di latitudini, tanto più che la pellicola di Panahi è stata presentata a settembre alla mostra del cinema a Venezia, ma lui non ha potuto esserci, poiché a luglio è stato condannato a sei anni di reclusione dal governo iraniano come dissidente politico.
Un film da vedere, da apprezzare ancor di più per la sua valenza politica all'interno di un contesto liberticida, di un regista che, oltre a narrare in maniera impeccabile, utilizza il cinema come strumento di comunicazione e di divulgazione delle storture del suo paese, e che non può non avere la stima e il sostegno dei suoi spettatori. Un film sul senso delle immagini e del cinema stesso, in cui la mdp non deve mai smettere di girare, a dispetto di regole inaccettabili. Un cinema di indomita resistenza.

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