Ken Loach e il suo ultimo film possono essere identificati da questa battuta (e da molte altre) che sintetizza una storia piena di calore, umanità, accoglienza e solidarietà, che si innesta alla perfezione nella poetica filmica dell'ottantasettenne regista inglese. Insieme alle battute, Loach è lì, nel titolo, The Old Oak è il pub al centro della vicenda, ma la 'vecchia quercia' è evidentemente lui, mai spezzato dagli anni, dai tempi della Thatcher a oggi; ed è nella macchina fotografica della protagonista, occhio perspicuo in grado di mettere a fuoco il reale e antenata dell'occhio della mdp del cineasta di Nuneaton (trailer).
Siamo nel 2016 e nel nord-est dell'Inghilterra arrivano intere famiglie di siriani in fuga dalla guerra. Il centro abitato è quello di Durham, in cui la celeberrima cattedrale normanna di XI secolo è un monumento fuori dal tempo e sovradimensionato per quella modesta realtà di comunità proletaria con una lunga storia alle spalle connessa al lavoro nelle miniere.
Il Loach più classico è lì, nei ricordi delle battaglie degli operai, dall'inizio degli anni '50 allo sciopero del 1984 e agli scontri con la polizia, oggi confinati negli scatti fotografici incorniciati e appesi nella sala sul retro - significativamente chiusa da anni - del vecchio pub The Old Oak. Il locale è gestito da Tommy Joe Ballantyne (Dave Turner), un uomo di mezza età, che la vita ha piegato più volte, ma i cui ideali sono ancora intatti per quanto malconci, un perfetto eroe loachiano, un perdente pieno di passione e di forza aggregante, che non può non vincere agli occhi dello spettatore.
In quest'ossimoro continuo, TJ, come viene chiamato da tutti, simpatizza con il gruppo di nuovi arrivati dalla Siria e soprattutto con Yara (Ebla Mari), la primogenita di una famiglia numerosa, il cui padre è rimasto in patria, imprigionato dal regime. Il clima però non è così accogliente, poiché i locali non vedono di buon occhio la presenza di persone provenienti da un luogo lontano, che non parlano bene inglese e che i media hanno contribuito a trasformare uniformemente in terroristi.
Ignoranza, paura, povertà sono le matrici di un razzismo istintivo e becero, verso cui si avvicina anche chi non è solito pensarla in questo modo, che non può non notare come gli stranieri vengano collocati sempre in realtà come la loro e mai in zone altoborghesi "come Chelsea o Westminster", e che, nel qualunquismo generale, pronunciano terribili frasi che iniziano con il più consueto "non sono razzista, ma..."
La macchina fotografica di Yara è l'oggetto-dispositivo che avvia la trama, poiché è quella che viene danneggiata da uno degli aggressivi locali, un ragazzo con la maglia del Newcastle - il calcio come forma di identità sociale che per Loach è stato Il mio amico Eric (2009) - che non riesce a fare meglio di questo, di fronte a quelli che chiama "beduini" e vede come usurpatori.
Loach apre il film proprio con le foto scattate all'arrivo, sulle quali la voce off dei personaggi ci informa da subito dell'agitazione che imperversa e, solo dopo questa introduzione, passa alla mdp. Yara e Tommy Joe sono in tutto e per tutto due perfetti personaggi di Ken Loach, usciti dalla penna dell'ormai storico sceneggiatore Paul Laverty: la prima chiede di identificare quel ragazzo, perché dovrà essere lui a pagare i danni; il secondo userà il buon senso e, sapendo che non caverà un ragno dal buco, la aiuta personalmente a riparare quell'oggetto così importante soprattutto per il suo valore affettivo perché regalo del padre. È l'inizio dell'amicizia che fa da sfondo al film e in cui i due protagonisti trovano un angolo di serenità e di utilità grazie al bene che fanno per l'altro. Yara, profuga di guerra, strappata dal suo mondo e con un evidente bisogno di una figura paterna, è quella che pronuncia la frase con cui questa recensione è iniziata, dopo aver portato del cibo caldo a TJ in una situazione difficile. TJ che ha alle spalle un matrimonio finito male, un figlio con cui non ha alcun rapporto, e che gestisce un pub tra mille difficoltà.
L'unico affetto stabile per l'uomo, fino ad allora, è la piccola Marra, una cagnetta comparsa per caso nella sua vita due anni prima, il 9 aprile 2021, data che ricorda come il momento più complicato di sempre. In nome degli ideali in cui crede, TJ, non solo aiuterà Yara, ma troverà nella comunità siriana un gruppo di nuovi amici con cui dare un senso al proprio bisogno di solidarietà e condivisione. "Solidarietà, non carità", ci tiene a sottolineare, in cui tutti collaborano al benessere della comunità. E poco importa se i pochi e abitudinari clienti del pub protestano contro quella collaborazione e vogliono che quel luogo resti un ritrovo riservato solo a chi lo ha sempre frequentato, per nulla inclusivo, fino a offendere TJ nelle maniere più retrive e con illazioni bieche e sessiste sulla natura del rapporto con Yara, che si amplificano attraverso i social. Nonostante i colpi e i tradimenti, TJ non rinuncia ai suoi ideali e va avanti, dichiarando a testa alta e sguardo deciso, verso uno di loro, "cerchiamo sempre un capro espiatorio quando le vanno male, eh?".
Quegli ideali, scopriamo piano piano, vengono da un padre che non c'è più e che diceva cose come "se i lavoratori si rendessero conto del potere che hanno, cambierebbero il mondo" e considerava la stessa cattedrale di Durham non appartenente alla Chiesa ma agli operai che l'avevano costruita nel Medioevo.
Proprio la cattedrale, simbolo di Durham, in cui TJ entra non perché religioso, ma perché luogo di spiritualità identitario del contesto sociale in cui è nato e dove ha sempre vissuto, spinge a una toccante riflessione di Yara. La ragazza, infatti, realizza che i suoi futuri figli non potranno mai vedere il tempio di Palmira, d'epoca romana, distrutto nell'agosto del 2015 dai miliziani dello Stato Islamico, e chiosa affermando che "il regime vive quando il mondo non fa nulla".
Il passato come sofferenza, il futuro come ideale verso cui aspirare lavorando nel presente, la morte dei propri cari da affrontare. TJ e Yara hanno tutto questo in comune e una gran voglia di fare per gli altri, l'unico modo che può far star bene anche loro. Un legame fatto di "Forza, Solidarietà, Resistenza", Strength, Solidarity, Resistence, che i sottotitoli italiani traducono con un pessimo Resilienza. Sono quelle le parole ricamate dai siriani sul gonfalone, che al centro vede raffigurata una grande e vecchia quercia; parole e immagine che ora uniscono le due comunità, in un bellissimo e artistico segno di integrazione avvenuta con successo!
La macchina fotografica di Yara è l'oggetto-dispositivo che avvia la trama, poiché è quella che viene danneggiata da uno degli aggressivi locali, un ragazzo con la maglia del Newcastle - il calcio come forma di identità sociale che per Loach è stato Il mio amico Eric (2009) - che non riesce a fare meglio di questo, di fronte a quelli che chiama "beduini" e vede come usurpatori.
Loach apre il film proprio con le foto scattate all'arrivo, sulle quali la voce off dei personaggi ci informa da subito dell'agitazione che imperversa e, solo dopo questa introduzione, passa alla mdp. Yara e Tommy Joe sono in tutto e per tutto due perfetti personaggi di Ken Loach, usciti dalla penna dell'ormai storico sceneggiatore Paul Laverty: la prima chiede di identificare quel ragazzo, perché dovrà essere lui a pagare i danni; il secondo userà il buon senso e, sapendo che non caverà un ragno dal buco, la aiuta personalmente a riparare quell'oggetto così importante soprattutto per il suo valore affettivo perché regalo del padre. È l'inizio dell'amicizia che fa da sfondo al film e in cui i due protagonisti trovano un angolo di serenità e di utilità grazie al bene che fanno per l'altro. Yara, profuga di guerra, strappata dal suo mondo e con un evidente bisogno di una figura paterna, è quella che pronuncia la frase con cui questa recensione è iniziata, dopo aver portato del cibo caldo a TJ in una situazione difficile. TJ che ha alle spalle un matrimonio finito male, un figlio con cui non ha alcun rapporto, e che gestisce un pub tra mille difficoltà.
L'unico affetto stabile per l'uomo, fino ad allora, è la piccola Marra, una cagnetta comparsa per caso nella sua vita due anni prima, il 9 aprile 2021, data che ricorda come il momento più complicato di sempre. In nome degli ideali in cui crede, TJ, non solo aiuterà Yara, ma troverà nella comunità siriana un gruppo di nuovi amici con cui dare un senso al proprio bisogno di solidarietà e condivisione. "Solidarietà, non carità", ci tiene a sottolineare, in cui tutti collaborano al benessere della comunità. E poco importa se i pochi e abitudinari clienti del pub protestano contro quella collaborazione e vogliono che quel luogo resti un ritrovo riservato solo a chi lo ha sempre frequentato, per nulla inclusivo, fino a offendere TJ nelle maniere più retrive e con illazioni bieche e sessiste sulla natura del rapporto con Yara, che si amplificano attraverso i social. Nonostante i colpi e i tradimenti, TJ non rinuncia ai suoi ideali e va avanti, dichiarando a testa alta e sguardo deciso, verso uno di loro, "cerchiamo sempre un capro espiatorio quando le vanno male, eh?".
Quegli ideali, scopriamo piano piano, vengono da un padre che non c'è più e che diceva cose come "se i lavoratori si rendessero conto del potere che hanno, cambierebbero il mondo" e considerava la stessa cattedrale di Durham non appartenente alla Chiesa ma agli operai che l'avevano costruita nel Medioevo.
Proprio la cattedrale, simbolo di Durham, in cui TJ entra non perché religioso, ma perché luogo di spiritualità identitario del contesto sociale in cui è nato e dove ha sempre vissuto, spinge a una toccante riflessione di Yara. La ragazza, infatti, realizza che i suoi futuri figli non potranno mai vedere il tempio di Palmira, d'epoca romana, distrutto nell'agosto del 2015 dai miliziani dello Stato Islamico, e chiosa affermando che "il regime vive quando il mondo non fa nulla".
Il passato come sofferenza, il futuro come ideale verso cui aspirare lavorando nel presente, la morte dei propri cari da affrontare. TJ e Yara hanno tutto questo in comune e una gran voglia di fare per gli altri, l'unico modo che può far star bene anche loro. Un legame fatto di "Forza, Solidarietà, Resistenza", Strength, Solidarity, Resistence, che i sottotitoli italiani traducono con un pessimo Resilienza. Sono quelle le parole ricamate dai siriani sul gonfalone, che al centro vede raffigurata una grande e vecchia quercia; parole e immagine che ora uniscono le due comunità, in un bellissimo e artistico segno di integrazione avvenuta con successo!
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