Besson nella sala romana |
Il Dogman bessoniano non ha nulla in comune con la storia messa in scena da Garrone ma, cani a parte, un'idea di fondo forse sì ed è il dolore del protagonista, l'elemento che più degli altri mette lo spettatore in empatia con ciò che guarda. Come dice Besson, inoltre, "tutti nella vita abbiamo provato dolore, ma come lo gestiamo?". E a ben guardare questo Dogman è proprio un film sulla gestione del dolore, una fiaba nera in cui il dolore scatena reazioni costruttive e distruttive, come in tutti noi.
"Ovunque ci sia un infelice, Dio invia un cane". Con questa frase del poeta Alphonse de Lamartine - che fu anche uno dei protagonisti della rivoluzione del 1848 che condusse la Francia alla seconda repubblica -, si apre il film, dicendo già molto sulla vicenda di Douglas, interpretato da uno straordinario Caleb Landry Jones, trentatreenne finora visto spesso in ruoli minori di opere di rilievo (Non è un paese per vecchi, Coen 2007; Get Out, Peele 2017; Tre manifesti a Ebbing, Missouri, McDonagh 2017; e in tv Breaking Bad, 2009-10 e la nuova Twin Peaks, 2017).
Douglas viene arrestato mentre sta guidando un camion ricolmo di cani e, da qui, si snoda un lungo flashback, originato dal dialogo con la psicologa in carcere (vi ricorda nulla?), che ci racconta la sua vita, partendo da un'infanzia a dir poco complicata, in una di quelle famiglie statunitensi da incubo che il cinema ci ha più volte raccontato, dominata dalla violenza e da una distorta e fanatica fede religiosa. Suo padre potrebbe essere la versione maschile di Margareth White, la terribile mamma di Carrie (De Palma 1976). Lui, però, alleva cani da combattimento e non tollera che il figlio minore provi sentimenti per loro, a differenza del primogenito che invece è totalmente in sintonia con lui. La madre, incinta, non resiste e abbandona la famiglia, mentre il piccolo Douglas viene rinchiuso dal padre nel recinto con i cani, dai quali non si separerà mai più.
Questo antefatto è l'unica parte che Besson prende dalla realtà, da un fatto di cronaca che lo aveva colpito anni fa. Non ha più saputo cosa è accaduto a quel ragazzo poi liberato dalla polizia e così ha provato a immaginarlo.
Douglas, costretto su una sedia a rotelle, finirà in un istituto e si innamorerà di Salma, una bellissima insegnante che lo farà appassionare a Shakespeare e al teatro - che permette di essere infinti altri sé - con una sortita fino a Cyrano de Bergerac, unica opera non shakespeariana che significativamente Besson inserisce nel rapido montaggio, perché rimanda all'impossibile amore provato per la ragazza, che negli anni diventerà un'etoile del teatro e si allontanerà dalla scuola. Douglas, grazie a lei, impara a truccarsi, a travestirsi e a recitare ("ero vivo finalmente!"), pur nell'assoluta consapevolezza che farlo sia mentire prima di tutto a se stessi ("l'unico momento in cui il mio riflesso mi faceva dimenticare la mia immagine").
Troverà lavoro in un locale in cui le drag queen si esibiscono e così sarà, settimana dopo settimana, una romantica Edith Piaf, un'algida Marlene Dietrich e persino una burrosa Marylin Monroe. Grazie a queste interpretazioni la colonna sonora, per le musiche originali affidata a Éric Serra (ascolta), si arricchisce di brani famosissimi, come La foule e Non, je ne regrette rien della prima, Lili Marlene della seconda, I Wanna Be Loved By You della terza.
Ma tra le altre canzoni di repertorio, ci sono anche La Grange degli ZZ Top, quando Douglas racconta alla psicologa la storia di suo fratello; Sweet dreams degli Eurythmics, che fa da sfondo al montaggio che narra la ricerca del lavoro di Douglas; So What di Miles Davis e Que Reste-T-il De Nos Amours di Charles Trenet, mentre è con i cani, dei quali peraltro cattura l'attenzione anche leggendo Romeo e Giulietta. Il protagonista del film, inoltre, accenna anche qualche parola di Money Money Money degli Abba in uno dei momenti più catartici della storia...
Se il teatro prima, il locale poi e la cinofilia sempre sono le bolle di benessere di Douglas, la vita reale gli riserva ben altri palcoscenici. Il suo temperamento, la sua sfrontatezza, la sua autodeterminazione - tema principe della pellicola - si scontreranno col potere più retrivo, quello cieco dell'anonimo comune del New Jersey in cui è ambientata la vicenda, che impone la chiusura del canile in cui lavorava e viveva, ma anche quello del terribile boss ispanico conosciuto da tutti come El Verdugo. L'atteggiamento di Douglas di fronte alle ingiustizie del mondo è quello di ignorare alcune leggi con la collaborazione dei suoi cani, in una versione aggiornata e cinofila di Robin Hood: "sono per la ridistribuzione della ricchezza dei beni", perché in fondo "le leggi le fanno i ricchi per controllare i poveri".
La malinconia del protagonista di Dogman è sempre evidente ed è tutta nello sguardo che racconta di una vita da misfit in piena regola, peraltro con la consapevolezza che "nessuno esiste senza un passato", motivo per cui ama i travestimenti, perché "ti inventi un passato, dimentichi il tuo". Vederlo allo specchio cantare in inglese sulle note de Il Padrino è uno dei momenti più almodovariani del film, romantico e pienamente malinconico, un Pierrot del XXI secolo, tra ambiguità sessuale e certezze sulla libertà di espressione e di movimento.
Douglas, tra le sue inevitabili ed enormi contraddizioni, ha conservato la fede in Dio, ma anche un comprensibile cinismo nei confronti degli uomini, che lo porta ad affermare che "i cani hanno le virtù degli umani senza i difetti, tranne uno: si fidano degli umani". Nonostante il dramma della sua vita, è ancora convinto che "lamentarsi è pregare il diavolo", ma anche che "i deboli e i codardi sopravvivono", perché "Dio riconosce i suoi".
La sua mentalità intrisa di cristianesimo avrà come epica conclusione il finale che colpisce con l'immediatezza delle immagini più dirette, iconograficamente pop, tra luci e ombre, tra ombre e corpi, tra realtà e fantasia.
E alla fantasia di Besson si adattano perfettamente le parole di Alfred Hitchcock, "c'è qualcosa di più importante della logica: l'immaginazione", e il regista francese la sfrutta senza indugi. Guardare questo film cercando la verosimiglianza sarebbe un grave errore, provate a vederlo solo accettando completamente la sospensione dell'incredulità, altrimenti non potrete apprezzarlo. Una fiaba, per quanto nera, resta una fiaba.
Garrone un signore a tutti i livelli. E non è un dettaglio: mai come in "Dogman" il titolo è importante per la comprensione del film, anzi... diciamo che spiega già tutto
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