James Gray firma un melodramma sull'immigrazione negli Stati Uniti con una storia incentrata sul difficile adattamento della giovane polacca Ewa Cybulski. Siamo nel 1920 e la protagonista, interpretata da Marion Cotillard, arriva ad Ellis Island con la sorella Magda che, però, per questioni di salute viene trattenuta in ospedale. Questo espediente narrativo raddoppia sin da subito il coefficiente di pathos lasciando Ewa da sola nel nuovo paese ma allo stesso tempo con una sorella malata a cui ricongiungersi.
La ragazza, peraltro, etichettata come donna di dubbia moralità e come possibile pericolo per la comunità, solo perché ha subito degli abusi sulla nave, verrebbe senz'altro rimandata al mittente se non si interessasse al suo caso Bruno (Joaquin Phoenix), un impresario che la nota per la sua bellezza e la ospita con il fine di inserirla nel corpo di ballo del teatro.
L'intero snodarsi della pellicola da questo momento in poi è una sequela di disgrazie: Ewa si ritroverà controvoglia ad impersonare sul palco Lady Liberty, con tanto di torcia in mano, come la statua simbolo della città, unica ben paludata tra le tante ragazze discinte a libro-paga di Bruno, che naturalmente s'invaghirà della giovane immigrata; sarà costretta a prostituirsi con l'adolescente Leo, che il padre, il sarto Oscar Straub, porta a Bruno perché "poco virile", e si adatterà al "mestiere" pur di racimolare i soldi per aiutare la sorella, dato che anche gli zii che l'avrebbero dovuta ospitare in città, a causa della sua poco onorevole fama, la scacceranno da casa. Riportata ad Ellis Island per essere espulsa, sarà ancora salvata da Bruno, non prima di aver assistito ad uno spettacolo con il mago Orlando, in realtà Emile (Jeremy Renner), cugino dello stesso Bruno (una chicca, dopo i numeri di magia sullo stesso palco si esibisce anche Caruso). In una storia che davvero non brilla per imprevidibilità Ewa si avvicinerà sempre di più ad Emile causando lo scontro tra i due cugini che terminerà in tragedia, in parte sfumata dall'uscita dall'ospedale di Magda...
Il film è diretto con un manierismo che in diversi casi mostra tutta la maestria del regista che, quando esordì nel 1994 con Little Odessa, fu addirittura paragonato a Martin Scorsese. Si fa riferimento, ad esempio, alla sequenza del bagno termale in cui Ewa conosce le altre "artiste" protette da Bruno; all'ellissi temporale ottenuto con la rosa bianca donata da Emile a Ewa che vediamo appassita nella scena seguente, o nella scena finale, resa con un perfetto split screen creato all'interno dell'ospedale, con la piccola imbarcazione su cui si allontanano le sorelle Cybulski da un lato e il funzionario corrotto da Bruno dall'altra. Davvero belle anche la fotografia dell'iraniano Darius Khondji (Delicatessen, Evita, Seven, La nona porta, Midnight in Paris, per citare alcune delle sue collaborazioni) e la scenografia di Happy Massee, che ripropone l'America del probizionismo con quelle atmosfere che sono forse alla base del titolo italiano che scimmiotta il capolavoro di Sergio Leone. Purtroppo però l'atmosfera non basta a far funzionare una storia troppo ancorata al sentimentalismo e ad un personaggio, quello di Ewa, che si distanzia dalla Mimì pucciniana solo perché non si ammala di tisi. Di fatto, quindi, C'era una volta a New York (o meglio The Immigrant) è uno di quei casi che confermano come una buona regia e tre ottimi attori non bastino a fare un buon film...
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