La sensazione immediata, sin dalla prima sequenza, è di essere di fronte al miglior film di Paolo Virzì. Quella sala con tavole apparecchiate riprese dall'alto mi hanno fatto subito pensare alla festa di carnevale de I vitelloni (Fellini 1953).
Senza scomodare capolavori assoluti come quello, la pellicola di Virzì è davvero riuscita e, nonostante alcune sbavature in sceneggiatura, il film funziona e, per contraddire una volta tanto l'indimenticato Stanis La Rochelle di Boris, è molto poco italiano...
È azzeccatissimo il titolo, tratto dall'arido linguaggio del mondo delle assicurazioni, e che si deve al libro di Stephen Amidon adattato dagli sceneggiatori Francesco Bruni e Francesco Piccolo che hanno trasformato un thriller ambientato in Connecticut in una storia che si svolge in Brianza.
Indubbiamente, però, l'aspetto che convince di più è la costruzione stessa della storia, narrata in quattro capitoli che ci ripetono la stessa giornata con gli occhi di diversi personaggi (anche in questo caso sarei tentato di scomodare precedenti celeberrimi come Rapina a mano armata o Le iene). Così, quella che a prima vista potrebbe sembrare un'inutile ripetizione, si rivela essere il modo più completo per lo spettatore di conoscere gli eventi nelle loro diverse sfaccettature, avendo a disposizione, volta per volta, dettagli che lo aiutano a comprendere i fatti.
La premessa è un incidente: su una strada di Ornate Brianza (non vi affannate a cercarla sulla cartina geografica, non esiste!), un fuoristrada urta un ciclista che cade in un burrone... dissolvenza e inizio dei quattro capitoli, i primi tre dei quali portano i nomi di alcuni dei protagonisti (Dino, Carla, Serena), il quarto intitolato semplicemente "finale".
Conosciamo così due famiglie unite dai figli adolescenti che fanno coppia: una composta da Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), la sua compagna Roberta (Valeria Golino) e la figlia di lui, la bellissima Serena (Matilde Gioli, che a tratti somiglia in maniera impressionante ad Angelina Jolie); l'altra da Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), sua moglie Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e loro figlio Massimiliano (Guglielmo Pinelli).
I personaggi sono tutti ben delineati e con poche luci tra le tante ombre, a partire da Dino: un terribile uomo privo di spina dorsale, che si affanna per entrare nell'alta società; che vede nel fidanzamento di sua figlia con il rampollo dei ricchissimi Bernaschi un'occasione di contatto con l'alta finanza, non disdegnando di chiedere un prestito di 700 mila euro per poter giocare in borsa, oltre che a tennis, con Giovanni Bernaschi. Carla è la moglie tutta facciata di Giovanni, un'ex attrice di teatro che ha sfruttato la sua bellezza per raggiungere un matrimonio fatto di agi piuttosto che la dura carriera artistica, come gli rinfaccia il professor Donato Russomanno (Luigi Lo Cascio), sedotto e abbandonato dalle sue grazie (dopo aver iniziato a far l'amore davanti a Nostra signora dei Turchi di Carmelo Bene), che viene scelto per essere il direttore artistico del Politeama, teatro a rischio demolizione, inizialmente salvato per mere questioni fiscali da Giovanni che lo affida alla moglie come giocattolo per placare la sua malinconia. Sarà, però, proprio lei, incapace di tener testa al marito e persino di avere un amante, a dire la battuta che più d'ogni altra proietta il film nell'attualità socio-politica italiana: "avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto".
Serena è probabilmente il personaggio più positivo: giovane, bella, priva di preconcetti e buona con tutti, forse troppo, tanto da mostrare un insostenibile istinto da crocerossina che la porta ad avvicinare ragazzi come Massimiliano, il viziatissimo figlio dei Bernaschi, o Luca (Giovanni Ambrosini), di tutt'altra estrazione sociale, orfano, che vive con lo zio tossico e spacciatore, ghettizzato dai coetanei benpensanti e provinciali, con forti disturbi psichici e in cura da Roberta, la matrigna di di Serena. Anche Roberta sembra essere una figura positiva, materna con Serena, professionista capace e orgogliosa del suo mestiere di psicologa, ma nella sua vita la più grossa ombra è proprio la relazione con Dino, apparentemente lontano anni luce da lei.
Su tutti spicca il caimano Giovanni Bernaschi, uno spietato uomo d'affari nel senso peggiore del termine, che sfrutta chiunque per i suoi interessi, vede la moglie come un oggetto da ostentare e il figlio come un cavallo della sua scuderia che deve vincere gare per dargli lustro. La sequenza del Premio Cottafavi, serata di gala per premiare uno dei ragazzi del liceo che si sia distinto nello studio, nello sport e nell'amicizia (sic!), dimostra pienamente la sua "etica", in cui mostra razzismo e incapacità di essere padre.
Tutti gli attori sono bravissimi, anche se il Dino di Fabrizio Bentivoglio e il Giovanni di Fabrizio Gifuni entrano di diritto tra le maschere del cinema italiano degli ultimi anni, il primo con un insopportabile tono scherzoso, spesso fuori luogo, mellifluo, zerbino dei potenti e così via, il secondo con un cinismo smisurato e un orgoglio da competizione.
I difetti della sceneggiatura, già anticipati, arrivano alla fine, quando la soluzione dell'enigma dell'incidente, per esempio, che darà ancora una volta prova della viscidità di Dino, arriva in maniera un po' troppo semplicistica, in un momento in cui la storia si è così complicata da apparire davvero poco credibile.
Assurde, naturalmente, le polemiche di alcuni politici brianzoli che hanno visto nel film un attacco alla regione, poiché è come se i gestori di locali romani o chirurgi estetici se la prendessero con Sorrentino per quanto messo in scena ne La grande bellezza (che nel frattempo ha vinto il Golden Globe...).
Per chi scrive, quindi, Virzì ha realizzato quello che finora può essere considerato il suo capolavoro e, oltre alla coinvolgente narrazione e la perfetta direzione degli attori, non vorrei tralasciare la grande capacità di piazzare la mdp nel posto migliore, come nella bellissima scena in cui Giovanni "spiega" la crisi economica a sua moglie Carla, in cui i due attori vengono ripresi dal basso, seduti su una scala, chiusi claustrofobicamente tra le pareti della loro reggia.
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