A Luca Guadagnino, classe 1971, il merito di essersi innamorato di Queer da adolescente a Palermo, quando iniziò a buttare giù un abbozzo di sceneggiatura. Era il 1988, a suo dire quella sceneggiatura era terribile, ma soprattutto i diritti diventarono disponibili molto tempo dopo, quando la sua carriera ormai gli permetteva di ottenerli. Ed eccoci alla storia degli ultimi anni, quando il regista siciliano, sul set di Challengers (2023), ha dato una copia del romanzo allo sceneggiatore di quel film, Justin Kuritzkes, che poi lo è stato anche di questo.
Daniel Craig smette i panni dello 007 per cui è maggiormente noto, e da quel personaggio socialmente perfetto, eroico, clamorosamente eterosessuale, passa a interpretare in maniera eccezionale William "Bill" Lee, l'alter ego dello scrittore, perso tra l'innamoramento per un bellissimo ragazzo incontrato per caso, Eugene Allerton (Drew Starkey), e la dipendenza per le droghe che lo ha spinto a trasferirsi in Messico. Siamo negli anni '50 e tutto questo negli Stati Uniti lo renderebbe un criminale perseguibile dalla polizia.
Il film, come spesso in Guadagnino, è visivamente stimolante, e lo dimostra sin da subito, quando i titoli di testa scorrono su immagini di un letto riprese dal'alto che si soffermano su diversi oggetti che ritroveremo legati a Bill nel corso della storia, sulle note di All Apologies dei Nirvana, cantata da Sinead O'Connor.
E il cosiddetto "punto di vista di Dio" tornerà più volte, anche subito dopo, quando Bill cammina con un giovane ragazzo, che ha appena rimorchiato, in una strada fiancheggiata da alberi stracolmi di fiori viola.
Strutturata in tre capitoli più un epilogo, la pellicola inizia racconta prima la vita di Bill in quel contesto (cap. I - Ti piace il Messico?), dove tra alcol e droga, la sua giornata sembra avere come principale finalità quella di trovare qualche uomo con cui fare sesso.
Il ralenti è un altro espediente usato spesso dalla regia, che così aumenta quel senso di ristagnamento e quel mal di vivere che attanaglia il protagonista, di notte, tra i combattimenti di galli, i locali, la tequila e qualche amico, tra cui l'irresistibile Joe (Jason Schwartzmann), sistematicamente derubato dagli uomini che porta a casa.
Questa continua rapacità sessuale, frutto di una vita condotta al di là dell'accettazione sociale, è sintetizzata a Lee da un ragazzo, "questo è quello che non mi piace dei froci: non si riesce mai a restare amici".
Il senso di immobilismo è reso da ambienti e inquadrature che rimandano all'immaginario di Edward Hopper, in grado di fermare momenti dell'instabile condizione umana proprio come gli scrittori della beat generation, che annoverò tra i suoi massimi rappresentanti Jack Kerouac e lo stesso Burroughs.
Ed è un Hopper in movimento l'intera sequenza d'albergo, in cui Bill si reca con uno dei suoi estemporanei amanti nella canicola di Città del Messico: un lungo corridoio dalle porte rosse, uno spazio lynchiano che immette in una stanza dalle pareti blu notte, con una grande finestra Hopper piana e uno specchio. Qui vediamo riflessi i corpi dei due uomini di spalle, sdraiati sul letto, sfiniti dal sesso, tra piacere e indolenza degna del migliore Tinto Brass.
Il colpo di fulmine, però, arriverà per Eugene, figura ambigua, eterosessuale, ma affascinato da Bill e dal suo denaro, che accetterà di viaggiare con lui verso il Sud America (cap. II - Compagnia di viaggio) e nella lisergica ricerca della ayahuasca nella natura più selvaggia (cap. III - La botanica nella jungla), fino all'epilogo.
Il sesso tra i due è mostrato in maniera esplicita, cioè finalmente come di solito il pubblico è stato abituato a vederlo in scene tra eterosessuali, e la passione e il coinvolgimento di Bill è totale, ben oltre quello di Eugene, che invece, narcisisticamente, sembra godere soprattutto dell'effetto che fa sull'altro.
Sulla scoperta della propria omosessualità Bill ricorda la confusione nella sua testa, quando da adolescente credeva di dover diventare un travestito, per poi capire di essere altro, ma comunque che per la società era "parte di un tremendo tutto".
La colonna sonora di Queer è sicuramente uno dei punti forti della pellicola. Non è calata diegeticamente all'interno della storia, come dimostra il ricorso ai Nirvana, decenni successivi agli anni narrati dalla pellicola, ma il lavoro di Trent Reznor e Atticus Ross (entrambi membri dei Nine Inch Nails), e già autori per Guadagnino delle colonne sonore di Bones and All (2022) e Challengers (2023), è straordinario. I loro brani Motorik, Pure Love, Wouldn't you, No final Satori, ci immergono nelle atmosfere del film, che si chiude con la poetica Vaster Than Empires, ancora loro, ispirata alle parole finali del diario di Burroughs, interpretata da Caetano Veloso.
Per quanto riguarda il resto della canzoni, invece, Guadagnino le ha scelte con Robin Urdang, preziosa music supervisor con lui sin dai tempi di Chiamami col tuo nome (2017). Se, come detto, il film inizia con All Apologies, i Nirvana tornano con Marigold e Come As You Are: il dolore di Kurt Cobain rappresenta un perfetto parallelo per quello struggente e disperato di Bill. Senza dimenticare che nel 1993 il leader dei Nirvana e Burroughs lavorarono insieme al brano The “Priest”, They Called Him.
E poi ci sono i Verdena (Sui Ghiacciai e Puzzle), ma anche i New Order (Leave me alone), e Prince (Musicology). Più vicino all'epoca della trama, infine, è sicuramente Riders in the sky (Vaughn Monroe), brano western di Stan Jones (1948), che riconsegna al film l'indolenza di certi momenti e l'atmosfera polverosa delle strade messicane.
Diverse le citazioni letterarie e cinematografiche: Dumè (Drew Droege), l'attempato gay sardonico e disilluso, ad esempio, legge La prissonière di Marcel Proust (quinto volume de La recherche), mentre Bill legge Appuntamento in Samarra di John Henry O'Hara (1934), significativamente un romanzo sull'autodistruzione del protagonista.
Qua e là si notano manifesti di film messicani di quegli anni, come La puertas del presidio (Gómez Muriel 1949) e Mujeres sacrificadas (Gout 1952). Più avanti, poi, un paio di rimandi a 2001. Odissea nello spazio, con la radice di ayahuasca lanciata in aria e fatta roteare al ralenti come l'osso/astronave della più celebre ellissi narrativa di Kubrick, e con Bill che vedremo anche nella sua versione da vecchio, poco prima della fine, come accadeva al David Bowman/Keir Dullea nel capolavoro del 1968.
Tra le citazioni più evocative, va segnalata quella dall'Orfeo di Jean Cocteau (1950), che Bill ed Eugene guardano in sala, e noi con loro vediamo la celebre sequenza in cui Orfeo/Jean Maria e Heurtebise/Francois Périer, con dei guanti magici, attraversano uno specchio, ripresi dall'alto, proprio come fino a quel momento ha spesso fatto anche Guadagnino (vedi).
Il film è un perfetto parallelo per la condizione psicologica di Bill: anche in quel caso la materia principale è l'innamoramento e Orfeo viaggia tra due mondi separati dallo specchio.
E non è certo un caso che proprio in quel cinema il regista siciliano usi per la prima volta un espediente, che poi ripeterà nel corso del film, per rendere lo scostamento tra realtà e pensiero di Bill senza usare una voce off, sdoppiando la sua immagine e mostrando una versione trasparente, ectoplasmatica di un braccio o di una mano con cui vorrebbe stringere o accarezzare Eugene.
E a proposito del rapporto parole-immagini, più avanti Bill dirà allo stesso Eugene, sempre più sfuggente, "voglio parlarti senza parole", così come darà voce a quel fenomeno di sdoppiamento appena descritto con l'eloquente frase "non sono frocio, sono disincarnato".
Il sogno in cui Bill pronuncia queste parole è la sequenza più lynchiano-cronenberghiana del film, poiché il dialogo è tra lui e il mezzobusto di una donna dai capelli rossi con laccio emostatico e siringa in un braccio, una sorta di allegoria della Droga, che lo attrae fino a toccarla tra le gambe.
Della donna vediamo anche i piedi separati dal resto del corpo e su un piede strisciare un millepiedi, altro simbolo che si ripete e che compare anche nei titoli di testa e in un altro sogno del protagonista, decisamente lynchiano. Qui, in una stanza dell'albergo dalle porte rosse, osservato da un grande occhio che tutto guarda (il suo, fin troppo chiaramente la propria coscienza), Bill mira il bicchiere sulla testa di Eugene, spara, mentre a terra compare davanti a lui un serpente che si autodivora formando un 8: l'autodistruzione si fa infinita...
Anche la scacchiera è simbolo strategico per antonomasia e non a caso compare nel momento della proposta di viaggio di Bill a Eugene. Si tratta di un altro brano di virtuosismo registico, con i due seduti di fronte e dietro di loro una delle tante finestre a griglia che caratterizzano diversi ambienti del film e che qui, come in un dipinto fiammingo, mostra il dettaglio tre persone che dialogano inquadrate in uno dei vetri.
Per rimanere sull'attenzione nella composizione dell'immagine non può mancare una perfetta natura morta, che fa il paio con i titoli di testa, in cui su un tavolo si vedono un posacenere, pacchetti di sigarette Camel, gli occhiali, un accendino e poco più in là una macchina da scrivere.
La droga per Bill rappresenta un percorso di conoscenza oltre i confini di sé, e l'incontro con la dottoressa Cotter (Lesley Manville), che vive nella jungla e conosce la potenza dello yage/ayahuasca ("uno specchio, non un portale", a proposito di Cocteau), conduce a una delle immagini più belle di Queer, una fusione dei corpi simbolica, surreale e così vicina all'universo di David Cronenberg da fare pensare a tanti suoi film, su tutti Il demone sotto la pelle, (1975) o Inseparabili (1988).
I due protagonisti, che già hanno visto i propri cuori letteralmente uscire da sé, si abbracciano, nudi, illuminati dall'interno: le braccia passano sotto la pelle dell'altro, deformando i profili dei due corpi. L'oggetto del proprio amore può sparire, ma il pensiero, l'immaginazione, il sentimento totalizzante è tutto in questa splendida figura di disincarnata incarnazione.
L'infinito, l'uroboro, l'immagine del corpo più desiderato della vita che resta nella propria memoria, un attimo che si fa eterno...
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