lunedì 5 maggio 2025

Le assaggiatrici (Soldini 2025)

Tratto dall'omonimo romanzo di Rosella Postorino, pubblicato da Feltrinelli nel 2018 e vincitore del premio Campiello, il film di Silvio Soldini racconta in maniera lineare una vicenda reale conosciuta dall'opinione pubblica solo nel 2012, quando la novantacinquenne Margot Wölk rivelò la sua esperienza vissuta durante gli ultimi anni di Adolf Hitler. Lei e altre ragazze, allora, erano state costrette dal regime a fare da assaggiatrici per i pasti del führer, per il quale si temeva un possibile avvelenamento (trailer).
Nella pellicola, girata in gran parte in Val Venosta, Rosa Sauer (Elisa Schlott) fugge da Berlino sotto bombardamento e raggiunge la casa di campagna in cui vivono i suoceri, Joseph ed Herta, nell'attesa che il marito, Gregor, torni dal fronte. Siamo sul confine orientale e in quella zona, nella foresta limitrofa, ha creato la Tana del lupo, il “Wolfsschanze”, il suo quartier generale, Adolf Hitler, a cui spetta la parte migliore dei raccolti. Per questa vicinanza le sette ragazze, "giovani e sane", vengono scelte per l'ingrato compito: il loro corpo viene usato come strumento di controllo.
Tutto avviene in maniera lenta e inesorabile: Leni (Emma Falck), Sabine (Kriemhild Hamann), Heike (Olga von Luckwald), Augustine (Thea Rasche), Ulla (Berit Vander), Elfriede (Alma Hasun) e la stessa Rosa vengono portate via su un furgone dai nazisti; dopo le visite mediche e le analisi, vengono fatte accomodare a tavola con un piatto ciascuna, nella comune sorpresa di poter mangiare tutto.
In realtà è un obbligo e presto capiscono il perché di quell' "invito" e delle regole a cui, da quel momento in poi, dovranno sottostare due volte al giorno, a pranzo e a cena. Tra queste quella di dover attendere lì per un'ora dopo aver mangiato, in modo che cuoco (Boris Aljinovic) e soldati possano accertarsi che non ci sia nulla di avvelanato tra i piatti da servire al führer.
Ognuna di loro ha una reazione differente: c'è chi prova a vomitare, venendo subito bloccata, chi piange, chi si dispera, chi invece, come Sabine, si sente onorata di essere stata scelta per un compito di così alta responsabilità. Duecento marchi al mese, questo il compenso che verrà riservato loro per l'assurda incombenza a cui saranno sottoposte.
La vita scorre in questo modo e giorno dopo giorno, seppur incredibilmente, le ragazze si abituano a tutto questo, entrano in relazione tra di loro, con le simpatie e le antipatie che si generano in ogni gruppo sociale. Rosa è la più borghese, l'unica che viene dalla città, c'è chi la idealizza e chi la disprezza chiamandola la "berlinese"; tutte parlano di uomini: c'è chi è vedova, come Augustine, e cinicamente annulla ogni tipo di romanticismo delle altre, e chi non ha ancora mai avuto uomini e fantastica su quando questo avverrà. C'è poi chi, come Heike, ha già due figli, e si ritrova incinta in un momento in cui abortire prevede la pena di morte, perché significa "uccidere un tedesco".
Com'è naturale che sia, col tempo le ragazze interagiscono anche con i membri della Wermacht, soldati semplici e ufficiali. Rosa è sposata da quattro anni, ma è stata con il marito per solo un mese prima della sua partenza, e ora da Gregor riceve lettere con frasi che fanno da mantra per chi è al fronte: "fino a quando la tua donna ti ama, tu, soldato, non sarai ucciso". In origine Rosa era la sua segretaria, uno schema di potere, tra capo e sottoposta, che rischia di ripetersi quando il tenente Albert Ziegler (Max Riemelt) le mette gli occhi addosso, tanto più che tempo dopo da Gregor non arriveranno più notizie, disperso in Russia. È l'evento che interrompe la routine: la madre smette di panificare, il padre non ascolta più la radio dopo cena, Rosa si chiede "si può smettere di vivere anche da vivi?"
Le assaggiatrici
è una vicenda al femminile, che narra la storia da un punto di vista finora trascurato, affrontando non solo i soprusi del potere nei confronti di quelle donne, ma anche i contrasti tra solidarietà, amicizia, invidia, tradimento di ognuna di loro. Un film dal respiro internazionale, psicologico e claustrofobico, orchestrato sulla tensione emotiva e sull'empatia provata dallo spettatore per la condizione vissuta dai personaggi, capitati per caso al centro della storia, improvvisamente decentrata dagli eventi fino a quel luogo di provincia, fino ad allora lontano da tutto. 
Non vediamo mai la figura di Hitler, l'uomo rintanato nel suo rifugio, convinto, come dice alla radio dopo una bomba scoppiata nella foresta, di aver ricevuto un "compito divino che mi è stato affidato dalla Provvidenza". Eppure Hitler, come in tanti horror in cui la fonte di paura è sempre fuori dalla scena, è vicinissimo e tutto ruota intorno a lui: persino il cuoco ne racconta dettagli personali, come il suo vegetarianesimo, dovuto all'amore per gli animali, per la sua Blondi, il suo pastore tedesco, ma forse anche perché ricorda il rumore delle calosce nel sangue quando da bambino andava al mattatoio. 
La confidenza tra Rosa e Albert ci mette a conoscenza anche dell'infanzia di un nazista convinto, quando il regime era lontano eppure qualcosa sembrava preannunciarlo. 
Sembra così di essere in Heimat (Reitz 1981-2013) o ne Il nastro bianco (Haneke 2009), quando l'uomo racconta di suo padre, maestro di scuola, che lo faceva esercitare nella lettura davanti alle lapidi del cimitero, con tanto di monito secondo il quale i morti punivano l'errore. Ma nonostante questo, quel bambino diventato adulto non ha l'empatia dello spettatore quando ricorda di aver ucciso adulti e bambini ebrei, affermando che "non sono come noi", o più avanti quando giustifica le proprie azioni con il classico "è l'ordine che ho ricevuto", il ritornello nazista costantemente ripetuto dagli accusati al processo di Norimberga.
"Possiamo augurarci di perdere?" è la domanda lecita e sacrosanta che si fa Rosa, quando essere contro non solo è necessario, ma è l'unica cosa umana da pensare.

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