David Lynch non c'è più... l'uomo che ci ha insegnato ad abbandonarci ai racconti e alle immagini senza l'ossessione di un significato, che ci ha fatto amare una massa informe su una fiamminga, un cubo blu con una chiave, una donna avvolta nella plastica, un anziano signore con un trattore, le luci difettose e intermittenti, e decine di altre cose, ha lasciato questo mondo, ma quante volte abbiamo pensato che venisse da un mondo altro...
Il suo cinema, con le sue visioni, le sue immagini, i suoi meandri concettuali e astratti per fortuna è ancora lì, tra i più grandi degli ultimi decenni.
Era nato 79 anni fa, da Edwina "Sunny" Sundholm e Donald Walton Lynch, a Missoula, una piccola città del Montana, tra gli stati più estesi e allo stesso tempo tra quelli con la più bassa densità di abitanti degli USA, non un dettaglio per chi ha realizzato tante pellicole ambientate nella provincia statunitense. Inoltre David, primo di tre fratelli, è un bambino terrorizzato dalla città e spesso preferisce stare per conto suo, e non con gli amici, per guardare gli insetti che sciamavano in giardino.
A causa del lavoro del padre, ricercatore del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti, si trasferisce più volte con la famiglia e, tra i vari luoghi, vive in Virginia, dove conosce Toby Keeler, il figlio del pittore Bushnell Keeler: è l'incontro che gli cambia la vita, perché gli dà la convinzione di poter diventare un artista. E oltre a regista sarà pittore, con un'ammirazione sconfinata per Francis Bacon: un'attività parallela che, dal 1967 al 2018, lo porterà a esporre in oltre settanta mostre.
A Washington frequenta la scuola Corcoran School of Art, quindi la School of the Museum of Fine Arts di Boston. A diciannove anni la decisione di partire per l'Europa, ma i tre anni prefissati si riducono a quindici giorni.
A vent'anni si iscrive alla Pennsylvania Academy of Fine Arts e qui inizia a prendere una mdp in mano, realizzando dei cortometraggi, da Six men getting sick (1966) a The Alphabet (1968), esempi a metà tra installazioni di arte contemporanea e cinema sperimentale. Nel 1970 l'American Film Institute gli produce The Grandmother, un mediometraggio di 34 minuti che rende David un regista a tutti gli effetti, lasciando la pittura in secondo piano. C'è già molto del Lynch che tutti conosciamo, con scene oniriche, ambienti angoscianti e un'inquietudine di fondo.
Lynch e Jack Nance sul set di Eraserhead |
È il primo dei dieci film di David Lynch, il feto mostruoso forse ricavato da un vitello imbalsamato, l'ansia di diventare padre che prende forma, Jack Nance che tornerà spesso nella carriera del regista e che qui diventa il suo alter ego, la veglia funebre a fine lavorazione a quella creatura/feticcio.
Lynch e John Hurt sul set di The Elephant Man |
Da lì in poi David trova la sua quadra e la sua poetica si fa più chiara, per quanto possibile nel suo caso, prima con Velluto blu (1986), dominato da notte, sesso, violenza, sadomasochismo tra Kyle MacLachlan - altro attore feticcio già protagonista di Dune -, Isabella Rossellini, Dennis Hopper e Laura Dern, e poi con Cuore selvaggio (1990), torbido road movie con la stessa Dern, Nicholas Cage e Willem Defoe, tra fughe, rapine e apparizioni di fate.
Lynch e Michael J. Anderson sul set di Twin Peaks |
Due stagioni tra 1990 e 1991, fanzine, libri, diari: dalla rivista Wrapped in plastic che omaggiava l'immagine iniziale del corpo ritrovato di Laura (Sheryl Lee) in riva a un lago, proprio da Jack Nance, alle pubblicazioni che riproducevano il diario della protagonista o le chiacchierate del mitico agente speciale Dale Cooper con Diane (con un assurdo quanto credibilissimo registratore vocale, che faceva da cellulare ante litteram). Se ne parlava ovunque, a scuola, nei luoghi di lavoro, sui mezzi pubblici, una sorta di soap opera per impatto sociale ma con la qualità del cinema: non era mai accaduto prima!
Una copertina della fanzine di Twin Peaks |
E poi la parte onirica, tipicamente lynchiana, con le visioni di Cooper, il gigante (Carel Struycken), la sala dalla tenda rossa e dal pavimento a zig-zag bianco e nero che torna nei suoi sogni e che ancora oggi è un luogo dell'anima di molti di noi, con il nano (Michael J. Anderson) che parla al contrario e balla in una maniera che avrebbe turbato anche la più serena delle persone, e poi la Signora del ceppo, con le sue lambiccate e incomprensibili preveggenze, per non parlare del personaggio che terrorizzò tutti, Bob (Frank Silva), entrato per caso in un'inquadratura e diventato una figura simbolo dell'intera serie.
Da quel successo planetario, l'esigenza di una pellicola che raccontasse le premesse di quello che succedeva nella serie, nacque così Fuoco cammina con me (1992), con Laura Palmer che viveva quello che negli episodi dei due anni precedenti avevamo scoperto nel tempo, e nel cui cast trovò spazio anche David Bowie - già in Dune -, che pronunciava una battuta fondamentale per tutto l'immaginario lynchiano, tra Calderon de la Barca e il surrealismo di André Breton: «we live inside a dream». Però, David, come scriveva Chris Rodley nel fondamentale Lynch secondo Lynch (1997), «è sempre stato il sognatore che trova l'analisi intellettuale del sogno semplicemente inadeguata. Per lui si tratta di un'esperienza originariamente sensoriale. Egli preferisce mostrarcela che spiegarcela».
Con Strade perdute (1997) si torna a un noir disturbante, che gioca con il tempo dell'azione, sfruttando l'ubiquità di un mefistofelico uomo misterioso (Robert Blake), che fa impazzire il disarmato protagonista Fred (Bill Pullman) e sua moglie Renée (Patricia Arquette), minando psicologicamente lo spettatore e la sua sicurezza tra le proprie mura domestiche.
Fu poi la volta dello straordinario Una storia vera (1999), con cui David Lynch ha dimostrato di poter commuovere il suo pubblico abituato a ben altro che alla storia di un vecchio americano di provincia, Alvin Straight (Richard Farnsworth), indurito dalla vita e così testardo da raggiungere suo fratello in un folle viaggio sul suo trattore, nel road movie più atipico girato negli ultimi decenni, con una delle più belle e malinconiche colonne sonore degli ultimi decenni (ascolta), a firma ovviamente di Angelo Badalamenti. Su di lui bisognerebbe scrivere altre pagine, scomparso due anni fa e indissolubile compagno di viaggio di David, in un binomio paragonabile a Hitchcock-Herrmann, Leone-Morricone, Spielberg-Williams, autore di tutte le colonne sonore del regista a partire da Velluto blu e che tra i capolavori, realizzò anche le musiche indimenticabili di Twin Peaks (ascolta).
Lynch sul set di Una storia vera |
Lynch sul set di Mulholland Drive |
L'ultimo film, ormai quasi vent'anni fa, è stato Inland Empire (2006), in cui la narrazione rarefatta aveva ormai preso il comando dell'immaginario lynchiano, negli ultimi anni molto più vicino all'arte figurativa che al cinema. Fu il dominio de "L'impero della mente", secondo il sottotitolo che l'edizione italiana aggiunse al titolo originale, e di immagini coinvolgenti, come avvenne anche nella terza stagione di Twin Peaks, l'evento che riprese la storica serie, in maniera forse un po' stanca, ma che ebbe nell'ottava puntata un'esperienza estetica che meriterebbe un posto nei musei di arte contemporanea.
Inland Empire |
Twin Peaks, 3x08 |
Caro David, continueremo a camminare con te, soprattutto in quei momenti liminali tra la veglia e il sonno, in quel luogo in cui il tuo cinema ha preso vita. E ogni volta che vedremo una luce intermittente, sapremo che ci sei. Grazie davvero!
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