mercoledì 27 novembre 2024

Giurato numero 2 (Eastwood 2024)

Il quarantaduesimo lungometraggio di Clint Eastwood, che all'incredibile età di 94 anni ci regala l'ennesima opera di grande valore, si presenta come una tragedia greca, un film giudiziario che colpisce il sistema giudiziario a stelle e strisce e che non ha nulla del thriller, poiché non c'è nulla da scoprire, ma che incentra il suo nucleo principale nei dilemmi morali del protagonista e, perché no, degli spettatori. 
Una pellicola che potrebbe essere una pièce teatrale, essendo di fatto ambientata nell'aula del tribunale e in casa del protagonista, con l'eccezione di qualche raccordo e dei flashback che ricordano i fatti (trailer).
L'allegoria della Giustizia con una mano tiene una bilancia, con l'altra una spada e, molto spesso, ha una benda sugli occhi, proprio come la Fortuna. Così la vediamo in una statua all'ingresso del tribunale e in un dipinto all'interno dell'aula dove si svolge il processo che sta al centro della trama. Quella benda, che simbolicamente è sul volto della Giustizia per significarne l'imparzialità, qui rappresenta una cecità ben più letterale e, non a caso, tramite l'espediente di una festa a sorpresa, la compagna del protagonista avanza bendata nelle primissime immagini del film, accompagnata da Justin, neanche a dirlo, nome che evoca la giustizia.
Siamo in un piccolo centro dello stato della Georgia e Justin Kemp, interpretato da Nicholas Hoult (attore di grande bellezza e tipologicamente vicino al giovane Eastwood), vive con Ally (Zoey Deutch), in dolce attesa, e tutto sembra andare benissimo, anche se su di loro aleggia qualche ombra. Cercando di avere figli, infatti, hanno già perso una coppia di gemelli, il che spiega la particolare ansia del momento. Justin ha un passato di alcolismo alle spalle, che riduce la fiducia di Ally nei suoi confronti e, per superarlo, frequenta un gruppo di alcolisti anonimi guidato da Larry Lasker (Kiefer Sutherland), l'unica persona (a parte noi spettatori) che conoscerà i suoi segreti.
In questo stato di cose, viene convocato per fare da giurato in un processo per la morte di Kendall Carter (Francesca Eastwood, figlia di Clint), avvenuta dopo un brutto litigio in un bar con il compagno, James Sythe (Gabriel Basso). Justin era presente a quel litigio, poiché casualmente nello stesso locale, il Rowdy's, un dettaglio che dato il suo passato non può rivelare né ad Ally, né al giudice. Ma questo non basta, poiché andando via da lì, con la macchina ha urtato quello che fino a quel momento aveva pensato fosse un cervo. Cosa fare? Come comportarsi all'interno di una giuria convinta della colpevolezza di James? Costituirsi, rovinando la propria vita, o lasciare incolpare il ragazzo, accusato di averla rincorsa e di averla gettata nel torrente?
La tragedia è nella scelta impossibile, poiché ogni via è drammatica, di certo non riporterà indietro la donna e distruggerà la vita di qualcuno, quella di Justin, che sembrava ormai di nuovo in carreggiata, o quella di James, anche lui in ripresa dopo un passato di violenza e droga.
Eastwood racconta con le immagini in maniera sopraffina, e quando vediamo Justin raccogliere il cellulare caduto a Faith Killebrew (Toni Collette) nel parcheggio, capiamo subito che la relazione tra i due sarà fondamentale per la storia narrata. Faith, infatti, lo scopriamo presto, è il pubblico ministero del processo, che in aula si contrappone all'avvocato difensore Eric Resnick (Chris Messina).
La regia si sofferma con attenzione, quasi con piglio documentaristico, sul percorso dei giurati: selezionati dal sistema giudiziario, all'arrivo in tribunale, vengono portati in una sala video, dove seguono un filmato che spiega loro le regole da seguire nei successivi giorni, e vengono interrogati dai due avvocati per essere selezionati. I giurati hanno le loro vite e, quindi, tutto l'interesse che il processo duri poco, soprattutto Justin, con la compagna a un passo dal parto, ma non riesce proprio ad accettare che l'imputato possa essere condannato ingiustamente. 
Clint Eastwood evidenzia le falle di un sistema a dir poco imperfetto. Ogni giurato ha motivi personali con cui si rapporta al caso: c'è chi ha perso un fratello per droga e vede in James uno dei tanti spacciatori che hanno rovinato vite agli altri; chi non ha proprio voglia di riflettere sui dati a disposizione e non riesce a pensare a un'altra possibilità rispetto al volontario femminicidio del fidanzato; chi è appassionato di true crime e spera di usare la sua "esperienza" per dare un contributo.
Ci sono poi i fattori culturali e di genere che orientano il voto. Non esiste giudizio senza un pre-giudizio, questo è certo!
Tutti i testimoni oculari di quella sera, che hanno visto litigare i due ragazzi e poi andare via separati, non hanno dubbi su quanto accaduto lontano da quel luogo: c'è persino chi li ha ripresi con il cellulare durante il litigio o ha visto un uomo scendere dall'auto per guardare sotto al ponte, e naturalmente lo identifica proprio con James. È davvero andato tutto in questo modo oppure la convinzione generalizzata è dettata dal passato di James, dalla sua fisicità e dalla mancanza di un altro valido sospettato? E se l'uomo venisse percepito colpevole per tutto questo, proprio come avveniva per altri pregiudizi, quelli razziali, all'imputato Tom Robinson ne Il buio oltre la siepe (Mulligan 1962), uno dei più celebri film giudiziari di Hollywood, fondato su un'analoga fallibilità della giustizia?
I flashback dei racconti dei testimoni ci riportano alla sera di quel 25 ottobre e ogni volta la vicenda si arricchisce di qualche dettaglio in più, soprattutto grazie ai pensieri in soggettiva del protagonista. Eppure James sembra convinto che il loro rapporto, seppur tossico, avrebbe potuto riprendere se, come spesso accadeva, il giorno dopo si fossero parlati dopo essersi calmati, e il suo unico rimpianto è quello di non averla seguita dopo il litigio. Anche un selfie di Kendall, precedente allo scontro, dimostra quanto i due si amassero nei loro momenti di serenità.
La verità, che noi conosciamo, nella realtà della narrazione è sempre in bilico, come in Rashomon (Kurosawa 1950), il primo grande capolavoro che mise in scena la soggettività della verità.
L'ansia accompagna Justin per gran parte del film: lo vediamo angosciato, sentiamo con un sonoro amplificato i suoi battiti cardiaci, trasaliamo con lui quando si abbassa per non farsi vedere da chi deve identificare il sospettato o gli cade qualcosa, perché messo in agitazione da qualche ambigua supposizione di un giurato o di un testimone, che potrebbe rimandare a lui. 
In un'altra immagine significante, Justin, dopo un diverbio con Ally, sempre più stanca di non avere il compagno a fianco in un momento così difficile, rimane nell'ombra di una stanza, attanagliato dai suoi terribili pensieri. L'espediente narrativo per rendere la sequenza credibile è l'abitudine di Ally - già vista in precedenza - di spegnere le luci quando esce da una stanza anche quando c'è ancora qualcuno. Nel raccordare questi dettagli Eastwood è un maestro e la sua direzione degli attori è sempre magnifica: brillano tutti, dai protagonisti agli interpreti che hanno a disposizione pochi secondi sullo schermo. E, tra le curiosità legate agli attori, c'è anche il ritorno di Toni Colette e Nicholas Hoult insieme sul set, dai tempi in cui erano madre e figlio in About a Boy (Weitz 2002). 
La parte più claustrofobica della pellicola è quella in cui i dodici giurati discutono sul da farsi, nella quale Justin - il giurato numero 2 del titolo - appare inizialmente l'unico a dubitare della colpevolezza di James, ma a cui dopo poco si affianca anche Harold. Quest'ultimo, nei cui panni recita il solito eccezionale J.K. Simmons, a proposito di verità taciute e tenute nascoste, è un ex detective in pensione che ora vende fiori e si sposta con un furgoncino con la scritta "Life Rose On", che gioca sul doppio senso di life goes on. Il suo istinto di indagare rischia di essere più forte delle regole che ovviamente gli impediscono di farlo.
All'interno di quella sala conosciamo i giurati, le loro personalità, proprio come avveniva in un film che va considerato un modello imprescindibile per questo, scritto da Jonathan Abrams: il capolavoro d'esordio di William Friedkin, La parola ai giurati (1957), dove come in questo caso solo un giurato - lì il numero 8 - dubitava della tesi dominante.
Molto ben riuscita anche la sequenza delle arringhe finali del processo, con un montaggio alternato che dà come risultanza un botta e risposta tra i due avvocati che sembrano essere davanti alla giuria in contemporanea.
In Giurato numero 2, lo spettatore viene hitchcockianamente  messo a conoscenza di una verità che gli altri personaggi non conoscono, seguendo a menadito la costruzione della suspence che il maestro del brivido spiega con dovizia di particolari nel libro/intervista di François Truffaut (Il cinema secondo Hitchcock, 1966), a cui questo blog deve il titolo.
Il risultato è un film morale ma mai moralista, in cui empatizzare e prendere le parti del colpevole, così come accade in diversi capolavori di sir Alfred, come Notorious (1946), Il ladro (1956), Psycho (1960) e tanti altri, ci incolla alla poltrona anche quando Justin ci ricorda che "A volte la verità non è giustizia", in un eccesso di hybris che in una tragedia greca non può non determinare conseguenze... 

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