venerdì 21 giugno 2024

In nome del popolo italiano (Risi 1971)

Tutto cambia perché nulla cambi... guardare questo film di Dino Risi fa risuonare in testa le parole di Tomasi da Lampedusa e il suo "qualcosa doveva cambiare perché tutto restasse com'era prima" (Il Gattopardo, Visconti 1963), poiché è impressionante seguirne la trama con la netta sensazione di poterla collocare in ogni epoca.
Forse è l'uomo ad essere sempre lo stesso, ma i personaggi di Mariano Bonifazi, il superlativo giudice interpretato da Ugo Tognazzi, e di Lorenzo Santenocito, l'imprenditore faccendiere cui presta il volto un impareggiabile Vittorio Gassman, ci fanno pensare istintivamente, per esempio, a tanti momenti della storia della nostra Repubblica e su tutti, negli ultimi decenni, allo scandalo di Mani Pulite (trailer e guarda il film). Uno scandalo che in effetti affondava le radici della corruzione anche degli anni raccontati nel film, e così Tognazzi è apparentabile ad Antonio Di Pietro che combatte gli inveterati abusi della malagestione nazionale e, nel diventare un eroe nazionale, nutre un ego smisurato che a volte rischia di prevaricare la giustizia stessa, con un certo senso di onnipotenza, così come d'altro canto il personaggio di Gassman rappresenta l'impunibilità del potere, il menefreghismo generalizzato del "non sa chi sono io" che, forse, con Berlusconi ha raggiunto il più alto grado, ma che ha caratterizzato decine di imprenditori e politici italiani prima e dopo di lui.
E lo stesso varrebbe per le epoche del passato e sulla storia tutta, peraltro narrata in tanti altri film: si pensi ad esempio a Il marchese del Grillo (Monicelli) e al suo celeberrimo "perché io so io e voi nun séte un cazzo" di sordiana memoria. Il potere, sempre il potere...
Di Bonifazi e Santenocito capiamo tutto sin da subito: Dino Risi ci presenta il primo che assiste alla demolizione di un abuso edilizio e il secondo in auto - ebbene sì, Gassman alla guida come ne Il sorpasso (Risi 1962) - che compie manovre da pirata della strada conscio che i vigili le ignoreranno  ("gliene avemo fatte cento de multe, se le fa sempre leva' ").
Allo stesso modo, da una parte un uomo che nel tempo libero va a pesca, dall'altra uno che dà un passaggio a un "capellone" di quegli anni con tanto di chitarra, per insultarlo e dirgli che trasformerebbe i loro camping circondandoli di filo spinato dove quelli come lui verrebbero rasati.
La vicenda è ambientata a Roma e nei titoli di testa vediamo, attraverso un lento carrello in avanti, il Palazzo di Giustizia, il celebre "Palazzaccio", dove lavora il procuratore Bonifazi e che viene chiuso per la caduta di alcune parti della statua della Giustizia, simbolo fin troppo eloquente nell'economia della pellicola.
Le vite dei due protagonisti si incrociano sul caso su cui indaga il procuratore Bonifazi, riguardante l'omicidio di Silvana Lazzorini (Ely Galleani), una giovane e bella ragazza che spesso accompagnava uomini facoltosi a incontri di affari e festini ambigui, e che ha conosciuto anche Lorenzo Santenocito.
Tra i pochi altri personaggi di rilievo del film, il professor Rivaroli (Pietro Tordi), incaricato dell'autopsia sul corpo della ragazza e che conosce bene Bonifazi, a cui esterna un monologo magnifico: "io sono contro le medicine, lo sai. Adesso ti dico come stanno le cose: per qualcuno la stitichezza è solo un motivo per passare ore e ore chiuso dentro il cesso.
Perché il cesso è l'estremo rifugio dove l'intimità combatte l'ultima battaglia contro il grande 'casino' sociale che c'è all'esterno. Omo: da 'na 'mmerda venivi e 'na 'mmerda ritorni'... grazie al progresso... L'anima de li mortacci sui... Concordi, giudice?"
Il film, per come è strutturato e per la grandezza dei due interpreti, è basato sul confronto tra i due protagonisti che, quando vengono a contatto, danno origine a sequenze cult in cui recitazione e scrittura (Age & Scarpelli sono gli autori di soggetto e sceneggiatura) danno il meglio di sé.
Alla calma e all'atteggiamento riflessivo di Bonifazi (lo vediamo anche pescare, come apoteosi della sua introspezione) fa da contraltare l'istrionismo di Santenocito. L'imprenditore, di origine siciliana, si sente discriminato per questo e nel suo vittimismo strombazzante, davanti a Bonifazi pronuncia uno sproloquio filosofeggiate sulla prepotenza subita che, alla richiesta di moderazione del procuratore, riduce a un più volgare "la peggior forma di prepotenza è quella che si avvale del potere concesso dalla collettività". Il tutto risulta ancora più altisonante, poiché Santenocito è in abiti da antico romano, poiché arrestato durante una festa in costume.
Nel corso della storia ogni loro incontro regala delle perle, compreso il viaggio in auto insieme fino al mare, dove peraltro pranzano in un ristorante sulla spiaggia, che fa istintivamente pensare ai due stessi attori diretti dallo stesso regista ne I mostri (1963) e al celebre episodio de La nobile arte.
Ogni volta che i due si confrontano abbiamo da un lato le riflessioni di Bonifazi, conscio e per questo stufo di difendere leggi che "consentono ai detentori del potere economico di prosperare", dall'altro la logorrea di Santenocito ("parlare è la mia droga"), che accusa di "ideologia" il procuratore urlandogli chiaramente "lei è prevenuto contro di me", ma anche l'ipocrita ammissione dei propri loschi comportamenti dietro il qualunquismo del "siamo italiani".
E in realtà hanno ragione entrambi...
Dino Risi orchestra con sapienza il montaggio e inserisce in diversi momenti dei preziosi flashback, che ricostruiscono gli avvenimenti precedenti alla narrazione, ma a cui bisogna fare attenzione: a volte sono in bianco e nero e sembrano rappresentare la soggettività del pensiero dei personaggi, altre volte sono a colori, mostrando l'oggettiva realtà del passato.
Anche i luoghi sono importantissimi e la scenografia ha un ruolo basilare. A occuparsene fu Luigi Scaccianoce, un colosso del cinema italiano, attivo dal 1945 al 1981 per i più grandi registi del tempo,  da Fellini a Rossellini, da Blasetti a De Sica, da Pietrangeli a Pasolini, ma anche per Orson Welles e Joseh Losey. Ne è un esempio perfetto la pomposa villa di Santenocito (si tratta di villa Giovannelli a Roma, a via Nazareth in zona Aurelia) è una sua perfetta estensione: ricca di dipinti con dogi, cardinali e paesaggi alle pareti, peraltro rosse, colonne tortili e consolle barocche e dorate nel grande salone, divani appariscenti e moglie di rappresentanza, Lavinia (Yvonne Furneaux), che fa parte del decoro dell'ambiente. Vira in scontro generazionale, invece, il rapporto con la figlia Giugi (Simonetta Stefanelli), un'adolescente tipo, che legge Linus e si isola ascoltando musica con le cuffie, mentre il padre dà ancora sfoggio della propria ipocrisia, parlandole di quanto debba stare attenta agli uomini che vede tutti come predatori, poiché lui ne è il primo rappresentante.
Riziero Santenocito con la Maestà di Duccio in bianco e nero
Dal capo opposto della linea ereditaria, c'è il vecchio padre dell'imprenditore, Riziero (Enrico Ragusa), bisbetico e a un passo dalla demenza senile, eppure lucido nel negare alibi al figlio, come chiaro simbolo di una integrità morale ormai letteralmente appartenente a un'altra generazione.
Una curiosità storico-artistica: su una parete della stanza di Riziero, si vede una riproduzione in bianco e nero della Maestà di Duccio (1308-11, Siena, Museo dell'Opera del Duomo), altra chicca della scenografia.
La scena in via Ciro il Grande all'EUR
Delle location romane, oltre al lungotevere con ponte Umberto I, di fronte al Palazzo di Giustizia, a Villa Giovannelli e al litorale di Sabaudia, dove sono riprese le scene in spiaggia, si vedono tra gli altri l'Hotel Hilton Rome Cavalieri sulla Balduina, dove si svolge il festino in cui Santenocito viene arrestato e gli studi Dear (oggi Fabrizio Frizzi) sulla Nomentana, dove viene allestito l'esterno e l'interno della Caserma Baldi, in cui si trasferiscono le indagini dopo la chiusura del Palazzo di Giustizia. Divertente la rapida sequenza dopo la testimonianza dei genitori della vittima da Bonifazi, che si sforzano di parlare un italiano forbito con strafalcioni da commedia all'italiana, vedere Tognazzi che in motorino passa senza soluzione di continuità in tre luoghi in realtà lontani tra loro, trafficatissimi e pieni di auto parcheggiate ovunque tipici di quegli anni.
La scena in piazza Venezia
Si alternano una dopo l'altra via Ciro il Grande all'EUR (si riconosce bene la statua in bronzo del Genio dello sport), Piazza della Repubblica, che Bonifazi attraversa in motorino, girando attorno alla Fontana delle Naiadi di Mario Rutelli e Alessandro Guerrieri (1870-1914), e infine Piazza Venezia, con l'imbocco di via del Corso e il balconcino verde di Maria Letizia Ramolino, la madre di Napoleone, di Palazzo Bonaparte. 
Buffa la probabile trovata di sfruttare un reale smottamento della strada, in zona Lungotevere della Vittoria, per farci passare Bonifazi che nota ovviamente la targa "Santenocito" su quei pessimi lavori stradali, come già notato altrove (Davinotti).
Un discorso a parte merita la parte finale del film, con Bonifazi che esce dal Palazzaccio in un pomeriggio estivo in cui si gioca un'importante e fantomatica Inghilterra - Italia a Wembley, con la città dapprima vuota, dal lungotevere a Ponte Testaccio, fino al riversamento dei tifosi festanti nelle strade, soprattutto in Piazza Maresciallo Giardino.
Bonifazi vede ovunque i mali dell'italiano medio in quel contesto assurdo, in cui ci sono tutti i livelli sociali, persino i preti, e qua e là qualcuno che gli ricorda Santenocito, con Gassman che davvero compare più volte rappresentando il pensiero del procuratore, soprattutto nel magnifico tifoso che urla "a' Bobby Charlton, facce 'na pippa", ancora una volta in perfetta consonanza con uno dei più celebri personaggi de I mostri (ep. Che vitaccia!).
Bonifazi anche lì riflette nella baraonda del momento, leggendo il diario della vittima Silvana Lazzorini, dando vita al sorprendente finale del film, accompagnato dalla malinconica musica di Carlo Rustichelli. Tutto davvero bellissimo e imperdibile!

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