"Dedicato a coloro che hanno deciso di lasciarci. Ci vediamo lungo la strada".
Con questa triste dedica si chiude Nomadland, road movie tratto dall'omonimo libro di Jessica Bruder, ambientato negli Stati Uniti occidentali, terzo lungometraggio della regista cinese Chloé Zhao, che ha fatto incetta di premi vincendo il Leone d'Oro a Venezia, il Golden Globe e l'Oscar.
Le belle immagini, la natura dell'America più isolata e dai paesaggi disperanti, l'ottima interpretazione di Frances McDormand e le musiche di Ludovico Einaudi (ascolta), però, non bastano a giustificare l'enorme successo di una pellicola che in altre annate non avrebbe vinto tanto e che, forse, solo l'isolamento a cui è stato costretto l'intero pianeta ha trasformato da buono a ottimo.
Impossibile parlare del film senza mettere, davanti a tutto, la presenza di Frances McDormand, nei panni di Fern, protagonista assoluta e figura che dà senso a tutta l'opera. La donna, nel 2011, a causa della Grande recessione, si ritrova a iniziare una vita di puro nomadismo con il suo van, dopo aver perso lavoro e aver visto morire il marito.
Sullo sfondo la città di Empire, in Nevada, città fantasma, praticamente cancellata dalla crisi per la chiusura della fabbrica che ne sosteneva l'economia.
Fern è un'ex insegnante di letteratura e, all'inizio del film, la vediamo lavorare al centro di Amazon a Reno, e soggiornare al Desert Rose Park a Fernley, sempre in Nevada. Di qui in poi, continuerà a spostarsi di luogo in luogo, conoscendo persone nuove e nella sua stessa condizione: da Linda (Linda May) a Swankie, amica che incontrerà più volte sul suo cammino, e con cui affronterà anche momenti difficili, da Bob Wells, anche lui reduce da sofferenze terribili, attorno al quale si riunisce un'intera comunità, autore de I dieci metodi del parcheggio invisibile, a Dave (David Strathairn), l'uomo che le si avvicina di più e con maggiore attenzione e cura.
Zhao indugia con carrelli che inquadrano lande desolate, talvolta immacolate, in cui la presenza umana è solo un accidente: la neve e il ghiaccio sono uno dei nemici di chi vive in continuo movimento, e Fern stessa deve farci i conti, tra la "gestione della cacca", altro problema da affrontare, e la malinconia delle foto e degli oggetti che le ricordano la vita passata.
La sofferenza, la perdita, la difficoltà di avvicinarsi agli altri sono i temi dominanti di un film, che ci mostra l'America della natura più piena, dei paesaggi a perdita d'occhio, degli animali lungo la strada, dei laghi e dei fiumi incontaminati. E Fern, nel suo viaggio solitario, passeggia in questi luoghi, si ferma ad ammirare i bufali, si tuffa in acqua per un bagno rigeneratore.
Con Linda lavorerà anche come addetta alle pulizie nel Parco nazionale delle Badlands in Dakota e con Dave ad un fast food. Il lavoro anche si incontra lungo il cammino, un cammino che non ha obiettivi e non ha mete, "per la stessa ragione del viaggio viaggiare" cantava Fabrizio De Andrè in Khorakhanè, e Fern, anche se riceve proposte per fermarsi più a lungo, dalla sorella sposata o da Dave, che si stabilisce dal figlio che lo ha appena reso nonno, deciderà sempre di ripartire...
Il senso di chiusura in se stessa, nonostante i bei momenti di condivisione e di divertimento, traspare continuamente nel corso del film, ma diventa vera sintesi allegorica in alcune inquadrature, su tutte quella di Fern che di sera cammina al centro di una strada deserta in piena città, passando davanti ad un cinema, il Midwest, che dà The Avengers (Whedon 2012), quanto di più lontano dalle atmosfere del film di Chloé Zhao.
Il contrasto tra la filosofia di vita di Fern e quella più comune e tradizionale, invece, è tutto nella sequenza del pranzo a casa della sorella e del cognato, dove la durezza di Fern, ormai nomade convinta, si scontra con chi sostiene gli investimenti immobiliari e chi, come lei, li rifiuta considerandolo un modo di foraggiare le banche dando l'illusione alle persone di potersi permettere quello che in realtà non possono. Come risponde ad una sua vecchia allieva, non è una "senzatetto" (homeless), ma una "senza casa" (houseless).
È, però, davvero un accenno ad un discorso politico appena sfiorato, per un film che in fondo è tutto ripiegato sul solo personaggio protagonista e che non ha alcuna intenzione di andare oltre. Fern si sente di portare avanti una tipica tradizione americana, quella che è stata la grande rincorsa del west per i pionieri, al pari del giorno del Ringraziamento, non a caso momento di transizione per lei da un momento di vita sociale e familiare ad una nuova partenza. Forse davvero troppo per quell'idea di condivisione e di partecipazione ai riti tradizionali della società. Per Fern, in fondo, i riti più validi sono altri, come quello di lanciare pietre nel fuoco per la morte di un'amica, nella certezza che "ciò che viene ricordato vive"...
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