Una storia che andava sicuramente raccontata, non c'è dubbio, e che il cinema non doveva ignorare. Partendo dal libro di Martin Sixsmith The lost Child of Philomena Lee (2009), Stephen Frears ha portato sul grande schermo l'assurda vicenda di una donna, ripudiata dalla famiglia per essere rimasta incinta e affiata alla Roscrea Abbey dove veniva praticato il commercio dei bambini (e dove persino Jane Russell ne comprò uno).
La Philomena del titolo - una Judi Dench ancora una volta impeccabile e che conferma di essere una di quelle poche attrici che meritano un premio appena entrano a contatto con una mdp - è la donna a cui è accaduto tutto questo: nel 1952, nove mesi dopo una serata di amore con un giovane conosciuto in un luna park, aveva dato alla luce Anthony che al terzo anno di età era stato venduto negli Stati Uniti. Un giornalista appena licenziato le dà una mano nella ricerca: naturalmente si tratta di Martin Sixsmith (Steve Coogan) che scoprirà che Anthony, rinominato Michael dalla famiglia adottiva, è diventato un pezzo grosso ed ha lavorato nel partito repubblicano, prima per Ronald Reagan e poi per George W. Bush senior. Purtroppo, però, nel 1995 è morto di AIDS. Philomena decide di voler parlare con chi l'ha conosciuto e, soprattutto, con il suo compagno...
Il film tocca tematiche davvero importanti: l'amore di una madre soffocato nel silenzio per 50 anni; la deontologia professionale di un giornalista; la dissimulazione dell'omosessualità negli USA, tanto più in una realtà come quella dei governi repubblicani che ai tempi avevano tagliato le spese per la ricerca sull'AIDS; la fede cattolica in contrasto con la condotta delle suore di Roscrea Abbey.
Gli ultimi due aspetti sono quelli che più emergono nella parte finale del film, in cui Philomena scopre che il figlio e il suo compagno erano persino andati al convento per avere notizie sulle origini di Anthony-Michael, non riuscendo a sapere nulla. La reazione della donna e del giornalista a questa rivelazione è decisamente opposta e giunti al cospetto della suora colpevole, che ancora ripete come una nenia che quelle ragazze dovevano pagare per i peccati commessi, Martin esplode di rabbia, mentre Philomena perdona suor Hildegard del male che le ha fatto. È proprio la distanza caratteriale dei due protagonisti la chiave strutturale della narrazione: da un lato la semplicità della donna, che ha fede nonostante le ingiustizie subite, che legge romanzetti rosa di cui narra la trama con dovizia di particolari al per nulla interessato Martin; dall'altro il giornalista ateo e diffidente nei confronti del prossimo, che vorrebbe scrivere sulla storia della Russia e che invece si ritrova a seguire una vicenda di vita vissuta, inizialmente solo per poter avere un'altra occasione nel suo lavoro, ma che poi si appassiona al caso.
Il film è decisamente incentrato sulle due ottime prove attoriali della Dench e di Coogan, che oltre a farci emozionare, riescono anche a farci divertire, come quando Philomena, appena giunta negli USA, in giro per il Lincoln Memorial, teme che il figlio possa essere obeso, date le grandi porzioni di cibo americane.
Il bel soggetto, che anche Peter Mullan aveva affrontato col ben più potente Magdalene (2002), l'altezza dei temi trattati e la bravura degli attori, però, va detto, non sono pareggiate dal livello della pellicola, che non brilla né per regia, né tutto sommato per sceneggiatura, che pure ha vinto il premio al festival di Venezia e di cui va senz'altro ricordato il momento in cui Philomena, venuta a conoscenza dei gusti sessuali del figlio, si chiede, senza batter ciglio, se sia stato "bicurioso" o meno.
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