lunedì 22 dicembre 2025

Un semplice incidente (Panahi 2025)

La pellicola di Jafar Panahi, che ha iniziato a fare cinema come assistente alla regia del grande Abbas Kiarostami, e che con i suoi film ha già vinto a Venezia (Il cerchio, 2000) e a Berlino (Taxi Teheran, 2015), stavolta si è aggiudicato la Palma d'oro a Cannes con un j'accuse in forma di commedia tragica, nera e tagliente sul senso della giustizia, sulla corruzione e sull'ipocrisia del governo iraniano, lo stesso che lo ha condannato per ben tre volte per propaganda anti-Stato (2010, 2022, 2025).
La penultima volta lo aveva portato al bellissimo Gli orsi non esistono (2022), l'ultima lo ha costretto a girare in maniera clandestina anche questo Un semplice incidente, una storia in cui l'incertezza sul colpevole scatena reazioni, stimola confronti tra le vittime, che a seconda dei casi cercano di capire, vogliono vendetta, provano compassione, trasformando il film in una riflessione filosofica e psicologica dal finale aperto e lasciato a noi spettatori (trailer).
L'incidente del titolo è l'inizio della storia, quando una famiglia costituita da padre, madre, figlioletta e un altro figlio in arrivo, investono un cane prima nei dintorni di Teheran. I danni dell'auto costringono l'uomo a portarla da un meccanico e lì, per caso, qualcuno lo riconosce (?) e lo rapisce...
Quel qualcuno è Vahid (Vahid Mobasseri), in passato torturato in nome della repubblica islamica iraniana. Nel periodo di detenzione era costantemente bendato, ma ricorda che il suo aguzzino, che tutti chiamavano Eghbal ("gamba di legno"; nell'edizione italiana tradotto alternativamente con "gambalesta" o "gambasecca"), aveva una protesi al posto della gamba destra, proprio come questo. Il desiderio di vendetta è totale, ma l'incertezza permane, l'uomo dice di chiamarsi Rashid (Ebrahim Azizi) e, soprattutto, fa vedere a Vahid che la gamba amputata sanguina ancora come se fosse una ferita fresca. Da lì inizia il tormento di Vahid che, a un passo dall'omicidio, decide di iniziare una peregrinazione alla ricerca dei suoi compagni di detenzione, per sottoporli all'identificazione dell'uomo catturato. Dapprima l'amico Salar (Georges Hashemzadeh), che lo porta da Shiva (Mariam Afshari), una fotografa che sta facendo il servizio matrimoniale di Golrokh (Hadis Pakbaten), anche lei arrestata con loro a suo tempo, e infine Hamid (Mohamad Ali Elyasmehr), il più rabbioso e incontrollabile di tutti. Lo sposo di Golrokh, Alì (Majid Panahi), è l'unico che di quella storia non sa nulla, appartiene a una ricca famiglia iraniana e per questo viene trattato da tutto il gruppo come un figlio di papà. Tutti riconoscono Eghbal per qualcosa, il sudore, la voce, ma nulla è determinante per dirimere definitivamente i dubbi. 
Quell'uomo ha tolto tutto a Vahid, a partire dalla reputazione e dalla moglie, lui vuole giustizia, ammesso che questa lo sia, però, come gli fanno notare gli altri. Shiva, ad esempio, che lo critica perché "prima agisci, poi pensi alle conseguenze", gli spiega che non vuole abbassarsi ad essere come gli integralisti politico-religiosi, perché secondo lei soprattutto così possono dimostrare la propria differente mentalità.
Ancora più schierato di Vahid sul giustizialismo, invece, è Hamid, che anche nelll'incertezza vorrebbe uccidere il prigioniero, dato che in caso contrario lui, una volta liberato, non ci penserebbe due volte a vendicarsi. Per lui, che si schiera contro l'antiviolenza dei suoi compagni, l'unica logica è "uccidi o vieni ucciso" e non crede che i bambini meritino migliore sorte, perché "da grande sarà una merda come il padre".
Panahi inizia e finisce il film con due lunghi piani sequenza, non utilizza la musica per tutta la durata della pellicola, ad aumentare il realismo della messa in scena quasi teatrale, con tanto di citazione da Beckett, quando Hamid paragona la situazione, surreale, comica, drammatica e grottesca, a quella di "Aspettando Godot".
Il regista iraniano non lascia nulla di taciuto sulla teocrazia che governa l'Iran e sulla sfrenata corruzione del paese. Questo vale ad esempio per i poliziotti in cui si imbatte questo improbabile gruppo di personaggi che scendono da un furgone, infuriati, con una donna in abito da sposa, una con la macchina fotografica, altri che litigano. Gli uomini in divisa non capiscono cosa stia succedendo, ma non fanno altro che pretendere denaro per non indagare e  si limitano a chiedere perché non abbiano il permesso di fare fotografie lì, unica scusa vagamente plausibile addotta dalla reporter. E i toni della commedia surreale si amplificano quando i poliziotti, per tutto questo, si fanno pagare con il pos!

In un distributore di benzina, la storia si ripete, con Golkor che, per la tensione unita all'odore nauseabondo che c'è nel furgone, ha i conati di vomito; il benzinaio, vedendola vestita da sposa, immagina che sia incinta prima del matrimonio: ciò basta per chiedere soldi in cambio del suo silenzio.
In una società piena di regole prive di senso sociale, tutti si possono sentire autorizzati a ricattare qualcuno.
All'inizio di questo surreale e grottesco road movie filosofico, Rashid/Eghbal e la moglie, al cospetto della figlia sgomenta per la morte del cane, la rassicurano con la religione, in qualche modo togliendo responsabilità al padre alla guida. La bambina risponde come qualunque persona dotata di buon senso risponderebbe, libera da sovrastrutture di pensiero, con il più classico del re è nudo: "Papà ha ucciso un animaletto, Dio non c'entra nulla con questo".
Dio è sempre lì, come spauracchio e come strumento di terrore. Un alleato utile e inevitabilmente ignaro per chi, non avendo autorevolezza, governa in suo nome su un popolo con autorità meschina e violenta, con la collaborazione di tutti coloro che da questo sistema possono trarne vantaggio.
Jafar Panahi ancora una volta ce lo racconta con esempi chiari, didascalici, e con una leggerezza sempre insospettabile, capace di navigare sopra la follia. 

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