domenica 27 ottobre 2024

Parthenope (Sorrentino 2024)

"L'amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento".
Venere anadiomene, da Apelle a Pompei, da Sandro Botticelli a Cabanel e Bouguerau, fino a Paolo Sorrentino. Il regista napoletano, sempre più visionario, stavolta si pone sulla linea del tempo dell'eterno femminino ed elegge la bellezza della giovane Celeste Dalla Porta, con il suo nome così rinascimentale e al suo primo lungometraggio, al ruolo di Parthenope, donna e allegoria al centro della sua ultima folgorante pellicola (trailer).
Perché Parthenope è ovviamente anche e soprattutto la sirena che leggendariamente fondò la città di Napoli. Della donna seguiamo la vita dalla nascita alla pensione, dal 1950 ai giorni nostri, tra famiglia, relazioni e carriera. In realtà, però, di lei conosciamo solo gli anni della gioventù, quelli che interessano a Sorrentino, che fa dire a uno dei suoi personaggi che "da giovane tutto è meraviglioso, da adulti tutto sbiadisce".
Il pessimismo del cineasta è volutamente eccessivo, ma va a rimestare nella malinconia, nei rimpianti di ogni spettatore, quei rimpianti che vogliono dire vite non vissute, vite immaginate, vite desiderate.
Come in È stata la mano di Dio tutto parte dal mare (anche se, scopriremo, "Dio non ama il mare"), Napoli è lì a riva, la vediamo da lontano, e in mare partorisce la madre di Parthenope che, subito dopo, proprio come la Venere botticelliana, esce dall'acqua già perfettamente cresciuta. La splendida diciottenne ammalia tutti, amici, parenti, sconosciuti, professori, assistenti universitari. Studia antropologia, tenta di diventare attrice, punta poi alla carriera universitaria. In mezzo c'è la vita, ci sono gli incontri, le persone, le risposte sempre pronte di Parthenope. Su tutto splende la mano del regista più talentuoso e maniacale - intesa come qualità, ça va sans dire - dell'attuale cinema italiano: ralenti, carrelli, surcadrage, prospettive centrali, immagini da sogno, ma anche grottesche, fino a un realismo disturbante e che fa gridare ancora una volta a Fellini. In qualche modo Parthenope sta a Sorrentino come Roma (1972) sta al maestro riminese.
Napoli è così la Galleria Umberto I, il mare, la Fontana del Gigante di via Partenope (proprio lei), ma è anche l'azzurro del tifo calcistico, il sangue di san Gennaro, i dettagli dei bassi aperti sulla strada e in cui la mdp entra impietosamente, nonché quella dei quartieri spagnoli e della camorra, dove il realismo si fa grandguignolesco. La bellezza di Napoli, però, è ovunque, declinata in ogni modo, fino a Capri, con i Faraglioni che fanno da sfondo all'immagine più iconica e turistica dell'isola, ma il cui panorama è anche teatro di morte, del suicidio di Raimondo (Daniele Rienzo), il fratello maggiore di Parthenope, innamorato di lei come Sandrino (Dario Aita).
L'attrazione per la bellezza non ha limiti e di fronte ad essa non ci sono regole, poiché quando è così disarmante si sposa con il dolore e con la morte stessa. E la colonna sonora non fa che confermare tutto questo, con brani come la malinconica Io sono il vento di Marino Marini ("se t'accarezzo non devi fidarti di me") e soprattutto con la canzone portante della pellicola, la struggente Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante che si chiude con un eloquente "vorrei morire".
A Posillipo Parthenope si aggira per la villa di famiglia, seducendo tutti, ammiccando da una carrozza settecentesca o semplicemente affacciandosi sulla terrazza e paralizzando un intero equipaggio di canottieri sbigottiti dalla sua avvenenza.
Lo spettatore non può non identificarsi con lei e Sorrentino ce lo impone sin dall'inizio del film, poiché prima di vederla per la prima volta guardiamo coi suoi occhi, quando in soggettiva la ragazza prende una sigaretta, che diverrà un suo immancabile attributo, e subito dopo stringe il crocifisso della catenina di Sandrino in un momento che, data la duplice natura di Parthenope, sa di sincretismo religioso, come sembra confermare la sua espressione sorpresa.   
Parthenope sorride a tutti e risponde con sagacia, guadagnandosi un "furbacchiona" che la accompagnerà per tutta la vita, quando il comandante le chiede "se io avessi 40 anni meno, tu mi sposeresti?", e lei controbatte "la domanda giusta è un'altra, comandante, se io avessi 40 anni in più, lei mi sposerebbe?" Le risposte giuste e consapevoli sono sempre furbacchione in effetti e quella sarà la sua ossessione, anche universitaria, poiché lo studio dà risposte e lo sa bene il professor Marotta (Silvio Orlando), ordinario di antropologia, che diverrà il suo mentore, a partire proprio dalla frase "voi giovani volete le risposte ma non sapete fare le domande giuste". Parthenope è un foglio bianco da riempire, ma ha l'entusiasmo con sé - "io non so niente, ma mi piace tutto" -, e tra autodeterminazione e consapevolezza impara presto, lo capiranno in molti, non solo il comandante...
Parthenope ama, ma non resta, prende poco e dà ancora meno, ma non approfitta della sua bellezza, come le dirà lo stesso comandante in futuro. Ai suoi uomini restano i ricordi di quegli attimi condivisi e le note di Che cosa c'è di Gino Paoli: una condanna al rimpianto che può durare tutta una vita, come per Sandrino; può portare alla dissoluzione, come nel caso di Raimondo; o far infuriare il potente di turno, abituato ad avere tutto e che reagisce con violenza verbale ("lei non stava pensando niente perché lei non è intelligente") a uno dei rifiuti più glaciali che un uomo possa ricevere ("non posso venire a letto con lei solo per buona educazione"), peraltro con il simbolico sottofondo di My Way di Sinatra.
Il triangolo amoroso tra Parthenope, Raimondo e Sandrino è condensato in un abbraccio in riva al mare che si ripete in una scena di ballo serale, che li unisce in un topos cinematografico che formalmente rimanda soprattutto a The Dreamers (Bertolucci 2003), ma che con due gradi di separazione arriva naturalmente a Jules et Jim (Truffaut 1962).
Che Parthenope scelga in quel momento Sandrino è inevitabile, ma anche in questo caso la vediamo mollemente far l'amore, distante, poco partecipe, senza lasciare mai la sigaretta (quasi fosse un novello Jean Paul Belmondo al femminile), vittima della propria bellezza, come Napoli d'altronde. Chi è così bello e venerato non può amare, ma solo essere amato sembra dirci il pessimismo sotteso al soggetto.
Ogni personaggio che la protagonista incontra meriterebbe una trattazione a sé per ciò che rappresenta e per l'enorme massa di dettagli su cui Sorrentino si sofferma. Marotta è il professore disilluso che non sa se consigliare di proseguire gli studi alla sua prediletta, ma poi ne subisce il fascino, il magnetismo e, anche senza mai oltrepassare il confine docente-studentessa, non può fare a meno di instradarla, raccomandarla e assicurarle la carriera universitaria, nella cattedra di antropologia che, nell'accezione sorrentiniana, è cinema  anch'essa ("l'antropologia è vedere. Quando si comincia a vedere? Quando viene meno tutto il resto").
L'abbraccio tra il professore confidente, con la vita distrutta, e la studentessa pronta a raccoglierne l'eredità, è hitchcockiano nel senso stretto del termine: la mdp gira attorno a loro come faceva in Vertigo con Kim Novak e James Stewart nella ripresa circolare per antonomasia. Non è forse un caso che proprio a Marotta spetti la battuta più clamorosamente cinefila della pellicola, quando, di fronte alle perplessità di Parthenope che non si sente in grado di diventare cultrice della materia e di aiutarlo a fare gli esami agli studenti, citi come più grande antropologo il regista Billy Wilder, "a un professore basta stare avanti di una lezione rispetto agli studenti".  Il figlio di Marotta è un macguffin che Sorrentino sovverte nella sua essenza, mostrandolo quando ormai lo spettatore ha rinunciato a vederlo, nella sua enorme massa di acqua e sale ("come il mare"), una sorta di sorridente e sublime - e quindi anche terribile - versione maschile della Venere di Willendorf, che proprio Silvio Orlando nei panni del cardinal Voiello adorava in The Young Pope.
John Cheever (Gary Oldman), unico personaggio realmente vissuto (1912-82), è lo scrittore di cui Parthenope è appassionata e che, fatalmente (nei film di Sorrentino accadono spesso cose bellissime come questa), incontra davvero. Devastato dal dolore, dall'ebbrezza, potrebbe davvero essere l'uomo che Parthenope vorrebbe amare, ma la sua omosessualità e lo stato depressivo in cui è non gli permettono altro se non piangere in una stanza vista mare tra le maioliche della costiera e una Madonna lignea medievale, che dimostrano quanto ricchezza e mezzi possano poco rispetto alla felicità, tanto più se tutt'intorno aleggia "l'odore degli amori morti".
"La bellezza è come la guerra, spalanca le porte", e così capita anche a Parthenope che accetta il consiglio di andare a conoscere la più grande insegnante di recitazione di Napoli, Flora Malva (Isabella Ferrari), e poi, tramite lei, anche un'altra vecchia gloria come Greta Cool (Luisa Ranieri).
Entrambe sono perfettamente sorrentiniane e sembrano appena uscite dalla terrazza de La grande bellezza, dove Jack Gambardella potrebbe annientarle con un paio di battute, mentre si colpiscono offendendosi vicendevolmente con la rivelazione dei rispettivi gusti sessuali. Della prima, vedova da vent'anni di un famoso drammaturgo, che vive in una casa-museo con una pendola che atterrisce a ogni rintocco Parthenope - in una gag che contrasta con l'aria solenne del luogo -, non vediamo mai il volto, poiché è costretta in una maschera nera a rete per nascondere i segni di una chirurgia estetica sbagliata, e si limita a mostrare le labbra, con cui va a caccia di emozioni. Eppure, in continua contraddizione con se stessa, dice a Parthenope che la bellezza "ammalia i primi dieci minuti, disturba i successivi dieci anni".
La seconda è una Gloria Swanson in salsa sorrentiniana, che ha ripudiato Napoli, si è scelta un pessimo nome d'arte anglofono ed è grettamente attaccata al denaro. Con lei il grottesco torna a toccare le vette più alte del film: è finzione pura, come la sua parrucca, poiché una volta scesa dal palco resta solo la sua rabbia, il suo rancore, la sua incapacità di stare con gli altri. Il suo monologo su Napoli, terribile per quanto in parte colpisca nel segno, con la rabbia di chi se ne è andato non tollerando le sue contraddizioni, può davvero far coppia con quello della terrazza di Jack Gambardella: "voi napoletani siete depressi [...] siete poveri, vigliacchi, piagnucolosi".
Roberto Criscuolo (Marlon Joubert) è il giovane boss della camorra che prova a sedurre invano Parthenope e che la conduce nella discesa agli inferi della malavita, tra via Sant'Agostino alla Zecca e via Forcella, dove le donne del popolo la acclamano come la Madonna e Sophia Loren. Il sacro si confonde con il profano del folklore popolare, tra poesia e postriboli, tra Fellini e Pasolini. Qui due famiglie, Criscuolo e Casamicciola, in una bisca con tanto di tavolo da biliardo e tipiche lampade verdi, si ritrovano in una voyeuristica ritualità che prevede l'osservazione del sesso tra i due ragazzi prescelti per unirsi e unire i due gruppi di malviventi, tra sudori e perversa eccitazione, fino all'applauso grottesco finale. Parthenope inorridisce e poi si apre in un sorriso di incredula tenerezza. Sorrentino ricucina scene di film in costume in cui a farlo, in maniera per nulla drammatica, erano le famiglie aristocratiche  (accade anche nella serie tv Lady Jane, 2024, troppo recente per essere stata d'ispirazione al film) o semplicemente recupera riti ancestrali oggi disturbanti? È una delle tante domande da fargli.  
E poi, a proposito di sacro e profano, c'è il vescovo Tesorone (Peppe Lanzetta), e sappiamo quanto l'immaginario ecclesiastico sia potente in Sorrentino, che qui sposa ancora una volta Fellini, che dichiarava Roma come "la città delle illusioni: non a caso qui ci sono la Chiesa, il governo e il cinema, tutte cose che producono illusione" (Roma, 1972) e che il regista di Parthenope trasferisce a Napoli, con il governo significativamente sostituito dalla camorra. Il vescovo è il laido religioso addetto al rito del sangue di San Gennaro e alla sua ampolla, attento alle truffe e al proprio egocentrismo sconfinato, con sogni di papato, ma che di fatto è truffa egli stesso, che considera l'altare come proprio palcoscenico e si prepara ad esso non prima di essersi tinto i capelli. È lui l'unico a portare all'orgasmo Parthenope - come certifica l'ampolla del sangue di san Gennaro che finalmente si liquefa - pur senza consumare un atto sessuale completo. Parthenope, ancora una volta, prende ma dà molto poco ed evidentemente gran parte del fascino di quella situazione per lei risiede nel desiderio altrui, nel proibito, nella eccitante perversione di fare sesso nell'anticappella di San Gennaro, adagiandosi su un letto che scende da un andito tra due colonne come nel più moderno degli appartamenti.
Prima di tutto questo, però, si trasforma in una Madonna da processione, con i paramenti della busto reliquiario del santo e gli ori che la ricoprono, tra i marmi barocchi. Sembra di essere in The Young Pope e in The New Pope e la sua schiena ("tutto il resto è pornografia") brilla al buio di quel luogo al pari del chiarore del corpo livido di Cristo nel dipinto retrostante che vediamo ancora in perfetta prospettiva centrale. Una curiosità su questa location, che ovviamente non è davvero la cappella di San Gennaro nel duomo dell'Assunta (Francesco Solimena 1667), ma è un altro capolavoro barocco napoletano, la cappella del Tesoro Nuovo nella Certosa di San Martino, affrescata in volta con il Trionfo di Giuditta da Luca Giordano (1702) e sul cui altare, in effetti, campeggia la celebre tela con la Pietà (in realtà una Deposizione di Cristo) di Jusepe Ribera (1637).
La sequenza nella cappella di S. Gennaro/S. Martino
L'anticappella in cui si svolge gran parte della sequenza, invece, è il passaggio tra la Sacrestia e la cappella stessa, affrescato da Massimo Stanzione e Paolo de Matteis: nel film si vedono bene Gesù bambino con la palma del martirio e le due allegorie che lo fiancheggiano sopra la porta che incornicia l'epifania della silhouette di Parthenope.Il personaggio interpretato da Celeste Della Porta attraversa i decenni e la moda, assurgendo sempre a bellezza assoluta.
Lo è negli anni '60, in costume in spiaggia, mentre incede a piedi nudi sulla terrazza di Capri vestita di un semplice lenzuolo o passeggia di sera con John Cheever, così come lo è all'università con una fascia tra i capelli negli anni '70, in un'epoca in cui il film ci regala un'altra immagine indimenticabile conferendole i caratteri dell'allegoria della Bellezza ferita. Sono gli anni degli scontri tra studenti e polizia e lei compare piangente in primo piano sugli scalini dell'università mentre tutt'intorno infuria la violenza.
Negli anni '80 splende anche con dei semplici jeans senza cinta e con una maglietta, quando deve affrontare i cosciali del ginecologo: non vediamo altro, percepiamo gli eventi e il dolore dalla scabra asetticità della messa in scena. 
"È impossibile essere felici nel posto più bello del mondo" dice uno dei personaggi in perfetto stile felliniano, e lo conferma l'iconica Stefania Sandrelli, la ragazza di sempre del cinema italiano, che oggi è la Parthenope ben più che adulta, che malinconicamente pronuncia "siamo stati bellissimi e infelici" ripensando alla fuggevolezza di quella stagione della vita, e che si identifica definitivamente con la città che ha lasciato, descrivendosi "triste e frivola, determinata e svogliata, come Napoli, dove c'è sempre posto per tutto".
Resta il vento, la risacca del mare, i ricordi, la vita stessa, lo scudetto del Napoli, le lacrime. Paolo Sorrentino ce le tira fuori con naturalezza e ineluttabilità. Non smetteremo mai di ringraziarlo abbastanza per questo, per le immagini che emozionano, per la perfezione delle sue inquadrature, per essere sempre più uno dei più grandi autori del cinema italiano del dopoguerra.
Ci mancano gli odori, che in un film come questo sarebbero basilari... l'odorama è da oltre un secolo il grande rimpianto del cinema, eppure a volte sembrerebbe necessario. Per quegli odori, però, basta andare a Napoli, dove invece sarà più difficile trovare un cortile ricolma di panieri azzurri che calano dai balconi, sorta di versione sorrentiniana delle lanterne rosse di Zhang Yimou, in cui poesia e folklore partenopeo trovano la migliore sintesi possibile in un'ennesima immagine difficile da dimenticare una volta usciti dalla sala.
Nell'ultimo film di Sorrentino, ci si innamora di tutto...

2 commenti:

  1. Bellissima recensione, ti faccio i miei più sinceri complimenti

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  2. Che meraviglia!

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