Pochissimi personaggi, ambiente piccolo, quasi claustrofobico, per un film pieno di intensità che indaga le relazioni umane e le enormi difficoltà di una vita passata nell'ombra di una sessualità di facciata e di scelte imposte dalla società.
Halim (Saleh Bakri) è un sarto e gestisce la sua attività con la moglie Mina (Lubna Azabal) in un negozio di Salé, antica e tradizionale città del Marocco. Il lavoro è tanto e l'aiuto di un apprendista è fondamentale. Per questo assumono il giovane Youssef (Ayoub Missioui), che, con il tempo, oltre a imparare il mestiere, rimane affascinato dal suo maestro e gli dichiara il suo innamoramento, turbando non poco Halim. Il sarto, però, fin ad allora ha vissuto la sua omosessualità nel silenzio e in segreti incontri anonimi negli spogliatoi dell'hammam (trailer).
La regia di Maryam Touzani, che spesso ricorre a immagini prive di personaggi, quasi nature morte con ciabatte, tavole imbandite piene di stoviglie usate, ci mostra tutto lo squallore di questo sesso rubato, con la mdp che resta fuori da questi ambienti angusti, da cui proviene qualche gemito e in cui vediamo solo i piedi e le caviglie degli uomini, su cui cadono velocemente i pochi abiti prima di un amplesso furtivo.
Allo stesso tempo i momenti di intimità tra Halim e Mina - la mdp qui si sofferma sulle fedi lucenti - sono descritti in maniera tenera, ma pieni dell'inevitabile disagio per la donna, che fa di tutto per tentare di fare l'amore con il marito, e per l'uomo che, pur nell'affetto e forse persino nell'amore che prova, riesce a darle ciò che desidera solo pensando di farlo con un uomo.
A rendere ancora più difficile questa complessa triangolazione relazionale, tra passione, amore, rispetto, stima, riconoscenza, e tanto altro, ma sempre vissuti silenziosamente, il tumore di Mina, quarto personaggio della vicenda, il più silenzioso di tutti.
In questo stato di cose Mina è quella che soffre di più, in tutti gli aspetti della sua vita. Per un amore a cui manca da sempre qualcosa di importante, per la malattia e, ora, per l'intromissione di un ragazzo che vede come un'insidia e contro cui si sente in competizione, pur non avendo armi per essere alla pari. Di conseguenza, può solo mortificarlo sul posto di lavoro e lo fa utilizzando tutti i mezzi, anche con scorrettezza... dall'altra parte, Youssef non si sente affatto in competizione con lei e, nonostante la giovane età, ne comprende le dure reazioni. Non a caso sarà proprio lui a trovare i modi per entrare in contatto con Mina e guadagnare la sua stima e la sua fiducia, anche in vista del futuro di Halim...
Mina è indubbiamente il personaggio che Myriam Touzani analizza con più attenzione, di cui ci fornisce le sfaccettature più dettagliate. Di Halim sappiamo poco e quel poco non è il meglio del film, che ce lo racconta con un'infanzia difficile, venuto alla luce mentre la madre moriva e per questo da sempre odiato dal padre, secondo una visione assurdamente passatista che cerca di spiegare l'omosessualità scavando nella biografia degli omosessuali. In fondo è lei la figura più espansiva, la più diretta e la più vera, in un mondo fatto di continue finzioni: è la ribelle; è la donna che fuma il narghilè infischiandosi delle convenzioni sociali; esulta a un gol mentre guarda una partita di calcio in un locale, nella sorpresa dei soli uomini presenti; si rifiuta di dare i propri documenti a un poliziotto che, nella Medina, glieli chiede senza alcun motivo.
Ed è sempre lei che, nonostante le tante difficoltà vissute, di fronte alla confessione del marito che rivela di aver sempre represso la propria natura, gli dice sinceramente "non conosco un uomo che sia più puro di te, sono felice di aver fatto parte della tua vita".
Il caftano blu è un elogio della lentezza - quante volte sentiamo l'espressione insensata di "film lento"? -, una lentezza che è valore filmico e narrativo, tra immagini e tempi altri, a cui non siamo più abituati.
E, con la medesima lentezza, gli abiti vengono guardati da una mdp che ne evidenzia tutta la sensualità all'interno della narrazione, come recentemente è riuscito solo a Paul Thomas Anderson nel meraviglioso Il filo nascosto (2017).
L'arrivo a bottega di un vecchio caftano rosa, realizzato cinquanta anni prima, è una delle chiavi iconografiche del film (al pari di quello blu che dà il titolo al film): i tre protagonisti ne restano colpiti e la mdp indugia sui dettagli che vengono descritti con cura, evidenziandone soprattutto la tecnica che ormai "non si usa più" e i bottoni a forma di fico. È il caftano da restaurare, da riportare a nuova vita, un abito attorno al quale, per il tempo narrato, ruotano i personaggi, la metafora di una vita da sistemare per darle nuova linfa, nella ferma convinzione che nessuno debba "avere mai paura di amare".
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