venerdì 22 settembre 2023

Io Capitano (Garrone 2023)

"Sembra esserci nell'uomo come nell'uccello un bisogno di migrazione, una vitale necessità di sentirsi altrove". Un calligramma a forma di pavone - con queste parole di Marguerite Yourcenar - campeggia a Casa Scalabrini, sede dell'Ecomuseo Casilino, casa di accoglienza per rifugiati richiedenti asilo e centro culturale identitario di Roma Est.
La frase sarebbe un perfetto esergo al film di Matteo Garrone, che racconta proprio quel bisogno, che va anche al di là delle esigenze di sussistenza dei suoi protagonisti.
Sì tratta di una pellicola difficile da analizzare dal punto di vista prettamente cinematografico. Troppe le implicazioni umane ed emotive di una pellicola che prende allo stomaco lo spettatore e lo attanaglia per oltre due ore, portandolo a casa con le riflessioni scaturite da una visione, che dimostra come in alcuni contesti la schiavitù sia ancora una realtà (trailer).
Presentato a Venezia, il filmino ha vinto sia il premio per la migliore regia, a Garrone, sia quello intitolato a Marcello Mastroianni per il miglior attore emergente, il protagonista, il capitano del titolo, Seydou Sarr, che nel film mantiene anche il suo nome.
Seydou è il sedicenne senegalese che vive in un villaggio nei pressi di Dakar con la madre e diverse sorelle minori. Lavora come muratore, ha il calcio come passione, passa gran parte del suo tempo libero con il cugino Moussa (Moustapha Fall) e vive la vita della comunità, anche suonando il sabar, il tipico strumento a percussione del popolo Wolof.
Il regista romano fa recitare gli attori proprio in lingua wolof, a cui si alterna, solo molto più avanti, un po' di francese e pochissime parole in italiano, poiché è proprio l'Italia il sogno di approdo della lunga odissea di Seydou e Moussa. Ai due cugini non basta la propria realtà, vogliono trovare la fortuna in Europa, per aiutare la famiglia, ma soprattutto per conoscere com'è la vita di quei mondi lontanissimi.
All'entusiasmo dei ragazzi si contrappone la preoccupazione di chi cerca di convincerli del contrario, che l'Europa non è così perfetta come sembra a quella distanza, che per arrivarci si rischia la vita, che attraversare il deserto non è un viaggio come gli altri. Queste le posizioni della madre di Seydou che, senza appello dice al figlio "devi rimanere qui e respirare l'aria che respiro io"; degli anziani, che ribadiscono ai due le difficoltà del viaggio e che in Europa la gente dorme in strada; e, infine, del saggio del villaggio che, però, li manda a cercare la protezione delle anime dei morti.
E così, Seydou e Moussa partono per il loro lungo viaggio, ricco di insidie, forse nella speranza di vedere  "l'insieme delle cose belle che esistono nel mondo" - è l'unica frase che sentiamo durante una lezione scolastica in cui il maestro parla loro del patrimonio culturale -, ma in cui troveranno ben altro, oltre la bellezza del deserto e di tanti luoghi, che la regia di Garrone non manca di sottolineare, coadiuvata dalla bella fotografia curata da Paolo Carnera, in un contrasto continuo tra realismo ed estetica.
Il percorso dei protagonisti è un viaggio all'inferno, che li trasforma internamente, facendoli passare in breve tempo dall'adolescenza alla maturità, ed esternamente, nel volto e negli atteggiamenti. Quei ragazzi sorridenti, che si aggirano per il villaggio con le magliette dei principali club di calcio europei o indossando felpe Louis Vuitton o Gucci (il tipico vestiario massicciamente donato nei paesi del terzo mondo dalle onlus e dalle stesse aziende che lo producono), scena dopo scena perderanno quel sorriso. Partono all'alba per coronare un sogno, senza dire nulla alle famiglie, convinti che il viaggio sarà un'avventura, un diritto di ogni viaggiatore, ma che alle loro latitudini è pressoché impossibile.
Sul loro cammino si alterneranno faccendieri, poliziotti corrotti, lo spietato cinismo dei più, la terribile mafia libica, le torture, ma anche la solidarietà e l'empatia di alcuni che gli permetteranno di superare i momenti più difficili.
Il giovane Seydou, proprio perché ancora non maggiorenne, verrà scelto da chi, per proprio tornaconto, non ha alcuna remora nel mettere a repentaglio la vita di decine, centinaia di persone, e per questo si ritroverà a guidare, senza alcuna esperienza, uno di quei barconi in cui gli immigrati viaggiano stipati all'inverosimile, in cui accade di tutto, e di cui il ragazzo senegalese diverrà il capitano del titolo, tra paura, senso di responsabilità ed eroico orgoglio.
Matteo Garrone gira un film di grande lirismo e più volte ricorre al registro onirico e fiabesco, come accade dopo le torture subite da Seydou, che ha la visione di un angelo nella sua funzione etimologica di messaggero, a cui affidare il compito di andare in Senegal per dire alla madre che è sopravvissuto e sta bene; oppure nell'episodio degno degli antichi libri di racconti, in cui Seydou e un altro compagno di sventura vengono liberati da un ... dopo aver costruito una fontana per il cortile della sua villa nel deserto. 
Ancora prima, però, questa modalità di narrazione raggiunge il suo acme. Dopo aver visto una serie di cadaveri semisepolti tra le dune, Seydou sente cadere una donna dietro di sé e torna sui suoi passi per soccorrerla e aiutarla: la donna allunga il braccio, disperata - come i protagonisti de La zattera della Medusa di Géricault (1819, Parigi, Louvre), il dipinto che tornerà alla memoria soprattutto nelle scene finali del film -, ma c'è poco da fare e fermarsi a lungo vorrebbe dire rinunciare anche alla propria vita. Il trauma di quell'esperienza di totale impotenza gli regalerà una visione a occhi aperti, in cui quella donna non solo si alzerà prendendo la sua mano ma lo seguirà volando sopra di lui. 
La scena del film affiancata dal dipinto di Chagall, da uno
degli miracoli di sant'Agostino negli affreschi a Montalcino,
Dante e Beatrice nel Paradiso dello Yates Thompson 36.
È un momento non solo onirico, ma anche artistico, e vengono alla mente le tante opere d'arte in cui gli uomini volano post mortem (penso ai santi che fanno miracoli nelle iconografie religiose) o in mondi ultraterreni (Dante, Beatrice e i beati del Paradiso nelle raffigurazioni della Divina Commedia), ma anche a La passeggiata di Marc Chagall (1918, San Pietroburgo, Museo di Stato Russo), in cui il pittore si autoritrae mentre tiene per mano la moglie Bella.
Sono solo suggestioni, ma tanto dicono del nostro immaginario di fronte a un momento del genere all'interno di un film che non può lasciare indifferenti, che scuote, sensibilizza, appassiona, commuove e, infine, esalta e dà forza.

3 commenti:

  1. Garrone si conferma un grande, non c'è niente da dire... Ottima recensione la tua! :--)

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  2. Bella Gianni, recensione molto interessante. Devo dire che sono uno dei pochi a cui il film non è piaciuto del tutto. Molto bello visivamente, la dimensione onirica è integrata e resa ottimamente, però trovo assente sia lo sguardo politico (e può anche essere una scelta da rispettare) che quello drammatico, troppo alleggerito proprio dal ricorso al sogno e, più in generale, ad un tono favolistico. Mi è sembrato di assistere al racconto di un'avventura, con momenti difficili ma mai veramente drammatici (nemmeno nella stanza delle torture libiche di cui penso sia stato reso 1/1000). Insomma, una specie di odissea tutto sommato leggera, troppo distante da una realtà che forse non riusciamo nemmeno ad immaginare (non so se hai letto, a tal proposito, Bilal di Fabrizio Gatti). Comunque leggerti è sempre, sempre, un piacere. Alla prossima

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    1. Grazie Andrea, sì, Garrone non ha stravolto la sua poetica per questo film e senz'altro si possono fare pellicole più impegnate politicamente. L'idea dell'odissea però, a mio avviso, arriva forte e chiara, anche se il realismo non è totale.
      Un piacere mio sapere che mi leggi
      A presto

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