Mentre Fritz Lang, nel 1931, era nelle sale con uno dei suoi capolavori tedeschi, M - Il mostro di Düsseldorf, Jean Renoir usciva in Francia con La cagna, suo secondo film sonoro e famoso dramma tratto dall'omonimo romanzo di Georges de La Fouchardière dell'anno precedente, messo già in scena, a teatro, da André Mouézy-Éon.
Quattordici anni dopo, il grande regista tedesco, ormai da anni negli Stati Uniti, riprese quel soggetto e ne fece un noir per la Universal - dopo che la Paramount e Ernst Lubitsch avevano rinunciato all'adattamento -, trasponendo la vicenda da Montmartre, dove Renoir aveva vissuto grazie al celebre padre pittore impressionista, Pierre Auguste, al quartiere degli artisti di New York, il Greenwich Village. Come protagonisti scelse un gigante come Edward G. Robinson e la bella Joan Bennett, moglie del produttore del film, Walter Wanger, e come il primo più volte nelle sue pellicole (guarda il film).
Non è quindi un caso che Lang ambienti il film proprio nel 1934, anno del suo arrivo negli USA.
Non è quindi un caso che Lang ambienti il film proprio nel 1934, anno del suo arrivo negli USA.
New York. Christopher Cross (E.G. Robinson) è un cassiere di banca, e lavora in un ambiente in cui si respira aria di collaborazione e amicizia - la pellicola inizia con una scena conviviale tra colleghi -, ma questo non toglie che la sua vita sia molto deprimente. Sposato con Adele, una donna che non ama, coltiva la passione della pittura nei ritagli di tempo, sempre osteggiato dalla moglie che non perde occasione per rimpiangere il primo marito, capo di polizia, il cui ritratto campeggia in salotto con tanto di medaglia, e denigrare Chris ritenendolo un fallito senza speranza.
In questa condizione umorale, Chris salva da un'aggressione una bella ragazza, Katherine (Joan Bennett), sedicente attrice, di cui fatalmente si innamorerà, rimanendo coinvolto nelle trame che 'Kitty' e, soprattutto, Johnny (Dan Duryea), il suo fidanzato lavativo con spiccata vocazione da protettore, gli ordiranno contro.
L'ottima fotografia di Milton R. Krasner, che con Fritz Lang aveva già lavorato ne La donna del ritratto (1944), noir in cui anche i tre attori protagonisti erano gli stessi, contribuisce a conferire un'atmosfera cupa e misteriosa al film. La regia del cineasta tedesco brilla meravigliosamente, a partire dall'indicazione del titolo, suggerito dal passo dell'Apocalisse sulla meretrice di Babilonia che indossa quel colore (17, 3-4), e inserito nello spazio diegetico di una targa viaria, la Scarlet Street appunto.
Molti i momenti in cui si può apprezzare la regia di Lang. Si veda, ad esempio, il bel dolly che sale per inquadrare la strada piovosa e poi scende per stringere su Chris e Katherine, ma anche la bella ripresa angolare e scorciata dell'appartamento in cui va a vivere Kitty, che tanto ricorda gli ambienti espressionisti dei primi film del regista, tra cui ovviamente Il dottor Mabuse (1922).
Il ribaltamento della regola dei 180° |
Altra sequenza indimenticabile è quella dell'esecuzione, nella quale il regista, dopo aver riassunto il processo con rapide battute dei testimoni ripresi in una collocazione priva di contesto, su uno sfondo neutro, lascia la mdp lontano dagli eventi, e con essa lo spettatore, che resta nella cella, da cui, con una veduta a cannocchiale, può seguire il condannato che avanza e continua ad urlare la propria innocenza, finché l'ultima porta si chiude dietro di lui e davanti a chi guarda: non serve mostrare cosa sta per succedere, l'orrore di quella fine è tutta lì.
Merita un ultimo accenno la scena in cui Chris guarda dalla finestra l'uomo che deve far salire in casa sua: la ripresa dall'alto, le ombre lunghe e il lampione fanno istintivamente pensare ad atmosfere da espressionismo tedesco e, ovviamente, a M - Il mostro di Düsseldorf.
Chris è totalmente alla mercè di Katherine, cosicché il paradosso è un motivo che si ripete spesso nel corso del film: il protagonista regala importanti somme di denaro a Kitty, ma è lui a sentirsi in colpa per non averle detto subito di essere sposato; e, persino quando si renderà conto che la donna ha utilizzato il proprio nome per vendere i quadri dipinti da lui, riuscirà a reagire positivamente oltre misura, commentando con entusiasmo "è come se fossimo sposati, ma ho preso io il tuo nome". Questo bel gioco di parole sulla percezione deformata dell'uomo ciecamente innamorato è uno dei casi in cui la sceneggiatura di Dudley Nichols - allora già autore di capolavori come Susanna (Hawks 1938), Ombre rosse (Ford 1939), Questa terra è mia (Renoir 1943) - si mette in evidenza.
Questo accade più volte, e vale ad esempio per la similitudine di Chris tra la crescita di un soggetto pittorico nella mente di chi lo dipinge e quella dei sentimenti in chi si innamora, ma soprattutto nella parte finale del film, quando un gruppo di avvocati si ritrova a parlare dell'idea di giustizia e della commisurazione della pena di un condannato, finché uno di loro sentenzia con un convinto "preferirei essere condannato da un tribunale che da me stesso".
La strada scarlatta, e La cagna prima di esso, affrontano l'incapacità del giudizio umano, sia essa determinata dall'amore cieco, come nel caso di Chris nei confronti di Kitty, o dalla connaturata ambiguità della colpevolezza, che in alcuni frangenti può determinare errori insospettabili.
E non va dimenticato che l'innocenza del colpevole, peraltro, in quegli stessi anni e per i decenni successivi, divenne uno dei temi portanti di un altro grandissimo regista come Alfred Hitchcock, conscio che quello fosse uno dei modi migliori per incollare lo spettatore alla poltrona, da sempre suo fine dichiarato.
Proprio quest'aspetto fu tra i più difficili da adattare in epoca di Codice Hays - come dimostrano i letti dei coniugi rigorosamente separati - ma evidenziare il senso di colpa del vero responsabile e una splendida immagine dell'ombra di un impiccato che si staglia su un muro, evidentemente bastarono ad aggirare il problema.
A sir Alfred Hitchcock, infine, poeta del dettaglio e del contesto, dovette di certo piacere la presenza in scena del rompighiaccio, oggetto apparentemente insignificante nell'economia della pellicola, eppure elemento fondamentale e protagonista del film. Di oggetti significanti, però, ce ne sono vari ne La strada scarlatta e anche un autoritratto, che in realtà non lo è, e che da 25 dollari passa a valerne 10.000, la dice lunga sul senso ambiguo della verità in questo splendido noir...
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