L'ottavo film di Quentin Tarantino, come recita uno degli slogan della pellicola che gioca sulla ripetizione del numero otto, è l'ennesima grande pellicola del cineasta di Knoxville - Tennessee...
Sostenitori e detrattori continueranno a tentare di mettere in ordine di qualità i suoi film, ma è una pratica speciosa quanto inutile: che si metta prima uno o l'altro in questa graduatoria, nulla toglie che negli ultimi venticinque anni il regista di Pulp Fiction (1994) abbia mantenuto una qualità media altissima, e non ce ne voglia chi continua con moralistica abnegazione a considerare il suo cinema diseducativo, sottolineandone esclusivamente i toni da grand guignol ed ignorando totalmente il valore di quella che sin da Aristotele è nota come catarsi estetica...
In ossequio alla sua acclarata nostalgia per il cinema classico, Tarantino resuscita l'Ultrapanavision 70, un formato panoramico utilizzato a Hollywood dal 1957 al 1966, i cui 5 mm in più servivano ad ospitare le cinque tracce sonore stereo; ottiene la colonna sonora di Ennio Morricone e la fotografia di Robert Richardson, insieme a Vittorio Storaro il direttore più premiato a Hollywood con tre Oscar (JFK. Un caso ancora aperto, 1991; The Aviator, 2004; Hugo Cabret, 2011) e già con Tarantino dai tempi di Kill Bill vol. 1 (2003).
La regia è impeccabile come sempre e il montaggio di Fred Raskin, in pieno stile tarantiniano, è un elemento quantomai determinante della narrazione; la scenografia è perfetta, pur nello spazio limitato dell'ambientazione ai limiti del teatrale, e la sceneggiatura, poi, per chi scrive, meriterebbe l'Oscar e in maniera netta su tutti e cinque i candidati dell'Academy che, scandalosamente, ha escluso Hateful Eight da quasi tutti i premi, fatta eccezione per le candidature di Morricone (ascolta), Richardson e Jennifer Jason Leigh (come migliore attrice non protagonista), che aggiunge all'interpretazione un brano musicale chitarra e voce in piena tradizione western (Jim Jones at Botany Bay).
Una overture musicale - come nei grandi classici quali Via col Vento (Fleming 1939) o 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1968; peraltro in 70 mm) - sei capitoli, due tempi separati da un tradizionalissimo intervallo che, mai come in questo caso, ha un senso narrativo, poiché funzionale ad un bellissimo racconto che apre la seconda parte del film, in cui la voce off dello stesso regista, nel ruolo di cantastorie, ricorda quanto accaduto in precedenza mentre nuove inquadrature riprendono i singoli personaggi.
E sono proprio questi ultimi, gli otto personaggi maledetti, ad incrociarsi sullo schermo, regalando allo spettatore sequenze perfettamente orchestrate che li vedono interagire tutti insieme o, molto più spesso, a coppie. Lo spettatore, però, stavolta cercherà invano di identificarsi in uno di loro, perché in Hateful Eight non c'è nessuno in cui identificarsi, né uno Django, per intenderci, né la sposa di Kill Bill, ma nemmeno un "cattivo" ben delineato, come i nazisti di Bastardi senza gloria.
Il film inizia con una diligenza, guidata dal vetturino O.B. (James Parks), che durante una bufera avanza nella neve, trasportando il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua preda, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Sulla strada ai tre si aggiungeranno Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex maggiore dell'esercito nordista e oggi anche lui cacciatore di taglie, e il sedicente sceriffo di Red Rock, Chris Mannix (Walton Goggins). Il gruppo raggiungerà l'emporio di Minnie, locanda che la proprietaria e il compagno Sweet Dave gestiscono da tempo, ma che al momento è in mano al messicano Bob e nella quale sono ospitati il boia britannico Oswaldo Mobray (Tim Roth), un uomo che sta scrivendo il proprio diario, Joe Gage (Michael Madsen), il vecchio generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Un altro personaggio, Jody Domingray (Channing Tatum), avrà un ruolo di rilievo quando la situazione di equilibrio deflagrerà...
La mdp non delude: movimenti circolari, riprese dall'alto, soggettive drammatiche, ripetute inquadrature "fordiane" dall'interno all'esterno, che utilizzano porte e finestre come incorniciature, contraddicono continuamente la natura teatrale del soggetto. Come già detto, però, è la sceneggiatura il vero capolavoro del film, ottimamente sostenuta dalle interpretazioni degli attori.
Oltre le numerosissime battute, che meriterebbero un elenco a parte, almeno due monologhi meritano il prezzo del biglietto: quello di Mobray-Roth che spiega l'ideale della giustizia pro domo sua, sottolineando i difetti della "giustizia sociale", intesa come quella della gente, e della "giustizia di frontiera", quella dei familiari delle vittime, precisando che l'unica giustizia "giusta" è quella del boia, perché esercitata con distacco; e quello di Warren-Jackson che racconta un'incredibile storia sulle torture che avrebbe personalmente inflitto al figlio del generale Smithers, per portarlo ad una reazione (paradossale che proprio a questo racconto, forse completamente inventato, Tarantino dedichi un dettagliato flashback). Lo scontro tra l'ex maggiore nordista di colore e l'ex generale sudista è anche quello che meglio di ogni altro fornisce una prospettiva storica alla vicenda, cronologicamente collocata poco dopo la fine della guerra di secessione (1861-65), in una fase in cui le giacche grigie (e Smithers ne indossa ancora una) non riescono ad accettare che quelli che fino a poco tempo prima erano loro schiavi abbiano combattuto dall'altra parte e che ora siano persino dei graduati...
Tantissime le suggestioni cinefile: il soggetto del film riprende l'idea de I dieci piccoli indiani di Agatha Christie - tante volte adattato per il grande schermo -, ma in versione decisamente politically incorrect. Daisy, ad esempio, è l'unica donna, ma viene continuamente picchiata da John Ruth e non solo, anche perché, come sottolinea Mobray, "finché non faranno un grilletto che le donne non possono premere, sì, impiccherò anche le donne"; Warren è chiamato negro da tutti e, quando Ruth, che non crede a Mannix, dice "se lui è sceriffo io sono figlio di una scimmia", la stessa Daisy gli risponde "bene, puoi dividere le banane col tuo amico negro"; e ancora Daisy, ricoperta di sangue, non può non far pensare alla Carrie di Brian De Palma (1976).
Il paesaggio innevato rimanda sia al b-movie western La notte senza legge (De Toth 1959), ambientato proprio in Wyoming come il film di Tarantino, sia soprattutto allo spaghetti western Il grande Silenzio (S. Corbucci 1968), con Klaus Kinski, che a sua volta si rifaceva al precedente del 1959 (si ricordi che Corbucci era già stato omaggiato dal regista statunitense nel suo primo western, Django Unchained, ispirato a Django, 1966).
La neve, però, era anche l'elemento caratterizzante di un altro film qui pienamente riproposto, La cosa (Carpenter 1982), il cui protagonista era lo stesso Kurt Russell e che narrava la storia di un gruppo di uomini che non potevano fidarsi l'uno dell'altro, e dal quale alcuni dettagli, come i pali conficcati nel terreno, appaiono letteralmente tagliati e incollati nel nuovo film di Tarantino.
Non mancano, inoltre, momenti di puro autocitazionismo: la claustrofobica scena al'interno dell'emporio di Minnie è paragonabile a quella del garage de Le iene (1991), in cui c'erano peraltro due dei protagonisti di The Hateful Eight (Tim Roth e Michael Madsen); la diligenza, complice l'epoca storica, rimanda a quella di Django Unchained (2012), e il personaggio di Tim Roth è una versione british ma altrettanto azzimata, per quanto possibile nel vecchio west, del dottor Schultz di Christoph Waltz dello stesso film; la già citata sequenza con Daisy insanguinata e con brandelli organici tra i capelli è analoga a quella di Pulp Fiction (1994) in cui Vincent Vega-Travolta veniva travolto dalla testa del povero Marvin fatta esplodere fortuitamente da un suo colpo di pistola.
La pellicola, difficilmente racchiudibile all'interno dei confini di un solo genere, dato che Tarantino dimostra, e non è certo una novità, di saper fondere western, giallo, thriller, splatter, è determinata dagli oggetti: polli, caramelle, porte, coperte, poltrone, caraffe, scacchiere, candele rappresentano preziosi indizi e chiavi narrative.
La soluzione dell'enigma sarà tutta nello splendido penultimo capitolo, costituito dal flashback esplicativo che viene incastonato dal montaggio prima del finale di un film in cui nulla è come sembra, nemmeno una lettera di Abramo Lincoln che il maggiore Warren, in fondo il vero protagonista - l'"Hercule Negro" come si è autodefinito Samuel Jackson in riferimento a Hercule Poirot - tiene da anni nella giacca, consapevole che possa essere funzionale a placare il razzismo dei bianchi nei suoi confronti...
In ossequio alla sua acclarata nostalgia per il cinema classico, Tarantino resuscita l'Ultrapanavision 70, un formato panoramico utilizzato a Hollywood dal 1957 al 1966, i cui 5 mm in più servivano ad ospitare le cinque tracce sonore stereo; ottiene la colonna sonora di Ennio Morricone e la fotografia di Robert Richardson, insieme a Vittorio Storaro il direttore più premiato a Hollywood con tre Oscar (JFK. Un caso ancora aperto, 1991; The Aviator, 2004; Hugo Cabret, 2011) e già con Tarantino dai tempi di Kill Bill vol. 1 (2003).
La regia è impeccabile come sempre e il montaggio di Fred Raskin, in pieno stile tarantiniano, è un elemento quantomai determinante della narrazione; la scenografia è perfetta, pur nello spazio limitato dell'ambientazione ai limiti del teatrale, e la sceneggiatura, poi, per chi scrive, meriterebbe l'Oscar e in maniera netta su tutti e cinque i candidati dell'Academy che, scandalosamente, ha escluso Hateful Eight da quasi tutti i premi, fatta eccezione per le candidature di Morricone (ascolta), Richardson e Jennifer Jason Leigh (come migliore attrice non protagonista), che aggiunge all'interpretazione un brano musicale chitarra e voce in piena tradizione western (Jim Jones at Botany Bay).
Una overture musicale - come nei grandi classici quali Via col Vento (Fleming 1939) o 2001. Odissea nello spazio (Kubrick 1968; peraltro in 70 mm) - sei capitoli, due tempi separati da un tradizionalissimo intervallo che, mai come in questo caso, ha un senso narrativo, poiché funzionale ad un bellissimo racconto che apre la seconda parte del film, in cui la voce off dello stesso regista, nel ruolo di cantastorie, ricorda quanto accaduto in precedenza mentre nuove inquadrature riprendono i singoli personaggi.
E sono proprio questi ultimi, gli otto personaggi maledetti, ad incrociarsi sullo schermo, regalando allo spettatore sequenze perfettamente orchestrate che li vedono interagire tutti insieme o, molto più spesso, a coppie. Lo spettatore, però, stavolta cercherà invano di identificarsi in uno di loro, perché in Hateful Eight non c'è nessuno in cui identificarsi, né uno Django, per intenderci, né la sposa di Kill Bill, ma nemmeno un "cattivo" ben delineato, come i nazisti di Bastardi senza gloria.
Il film inizia con una diligenza, guidata dal vetturino O.B. (James Parks), che durante una bufera avanza nella neve, trasportando il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua preda, Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh). Sulla strada ai tre si aggiungeranno Marquis Warren (Samuel L. Jackson), ex maggiore dell'esercito nordista e oggi anche lui cacciatore di taglie, e il sedicente sceriffo di Red Rock, Chris Mannix (Walton Goggins). Il gruppo raggiungerà l'emporio di Minnie, locanda che la proprietaria e il compagno Sweet Dave gestiscono da tempo, ma che al momento è in mano al messicano Bob e nella quale sono ospitati il boia britannico Oswaldo Mobray (Tim Roth), un uomo che sta scrivendo il proprio diario, Joe Gage (Michael Madsen), il vecchio generale sudista Sanford Smithers (Bruce Dern). Un altro personaggio, Jody Domingray (Channing Tatum), avrà un ruolo di rilievo quando la situazione di equilibrio deflagrerà...
La mdp non delude: movimenti circolari, riprese dall'alto, soggettive drammatiche, ripetute inquadrature "fordiane" dall'interno all'esterno, che utilizzano porte e finestre come incorniciature, contraddicono continuamente la natura teatrale del soggetto. Come già detto, però, è la sceneggiatura il vero capolavoro del film, ottimamente sostenuta dalle interpretazioni degli attori.
Oltre le numerosissime battute, che meriterebbero un elenco a parte, almeno due monologhi meritano il prezzo del biglietto: quello di Mobray-Roth che spiega l'ideale della giustizia pro domo sua, sottolineando i difetti della "giustizia sociale", intesa come quella della gente, e della "giustizia di frontiera", quella dei familiari delle vittime, precisando che l'unica giustizia "giusta" è quella del boia, perché esercitata con distacco; e quello di Warren-Jackson che racconta un'incredibile storia sulle torture che avrebbe personalmente inflitto al figlio del generale Smithers, per portarlo ad una reazione (paradossale che proprio a questo racconto, forse completamente inventato, Tarantino dedichi un dettagliato flashback). Lo scontro tra l'ex maggiore nordista di colore e l'ex generale sudista è anche quello che meglio di ogni altro fornisce una prospettiva storica alla vicenda, cronologicamente collocata poco dopo la fine della guerra di secessione (1861-65), in una fase in cui le giacche grigie (e Smithers ne indossa ancora una) non riescono ad accettare che quelli che fino a poco tempo prima erano loro schiavi abbiano combattuto dall'altra parte e che ora siano persino dei graduati...
Tantissime le suggestioni cinefile: il soggetto del film riprende l'idea de I dieci piccoli indiani di Agatha Christie - tante volte adattato per il grande schermo -, ma in versione decisamente politically incorrect. Daisy, ad esempio, è l'unica donna, ma viene continuamente picchiata da John Ruth e non solo, anche perché, come sottolinea Mobray, "finché non faranno un grilletto che le donne non possono premere, sì, impiccherò anche le donne"; Warren è chiamato negro da tutti e, quando Ruth, che non crede a Mannix, dice "se lui è sceriffo io sono figlio di una scimmia", la stessa Daisy gli risponde "bene, puoi dividere le banane col tuo amico negro"; e ancora Daisy, ricoperta di sangue, non può non far pensare alla Carrie di Brian De Palma (1976).
La Carrie depalmiana e la Daisy tarantiniana |
Il paesaggio innevato rimanda sia al b-movie western La notte senza legge (De Toth 1959), ambientato proprio in Wyoming come il film di Tarantino, sia soprattutto allo spaghetti western Il grande Silenzio (S. Corbucci 1968), con Klaus Kinski, che a sua volta si rifaceva al precedente del 1959 (si ricordi che Corbucci era già stato omaggiato dal regista statunitense nel suo primo western, Django Unchained, ispirato a Django, 1966).
La neve, però, era anche l'elemento caratterizzante di un altro film qui pienamente riproposto, La cosa (Carpenter 1982), il cui protagonista era lo stesso Kurt Russell e che narrava la storia di un gruppo di uomini che non potevano fidarsi l'uno dell'altro, e dal quale alcuni dettagli, come i pali conficcati nel terreno, appaiono letteralmente tagliati e incollati nel nuovo film di Tarantino.
La soluzione dell'enigma sarà tutta nello splendido penultimo capitolo, costituito dal flashback esplicativo che viene incastonato dal montaggio prima del finale di un film in cui nulla è come sembra, nemmeno una lettera di Abramo Lincoln che il maggiore Warren, in fondo il vero protagonista - l'"Hercule Negro" come si è autodefinito Samuel Jackson in riferimento a Hercule Poirot - tiene da anni nella giacca, consapevole che possa essere funzionale a placare il razzismo dei bianchi nei suoi confronti...
Pienamente d'accordo. Vogliamo parlare della chitarra?
RispondiEliminaottima recensione per un grandissimo film.
RispondiEliminain "8" manca solo un bagagliaio dal quale fare la solita inquadratura...!!