martedì 14 maggio 2024

Anselm (Wenders 2023)

"Quando il caos viene delimitato da un confine rettangolare, allora diventa un dipinto". Con questa nettezza Anselm Kiefer esprime le sue concrete certezze artistiche, ma allo stesso tempo la sua idea di esistenza umana è dettata da quella che definisce "l'insostenibile leggerezza dell'essere": il nulla e l'essere sono un binomio "se si inizia qualcosa di grande si sa già che il fallimento sarà parte di esso". Con questo nichilismo ha affrontato la propria produzione quello che, ormai indiscutibilmente, è uno degli artisti viventi più noti al mondo che, ancora oggi, a un passo dagli ottanta anni, dichiara di sentirsi sempre bandito, sempre in cammino, "non posso fermarmi".
Difficile considerare Anselm un semplice documentario (trailer). Quando dietro la mdp c'è uno come Wim Wenders tutto diventa così poetico ed eccezionale da meritare il termine di cinema nell'accezione più alta del termine.
Poi, in questo caso, in cui i due sono coetanei (classe 1945) e amici da 35 anni, con il regista che un tempo avrebbe voluto essere un artista figurativo (e in parte lo è anche così) e l'artista un regista, tutto si compenetra più facilmente e il cinema che racconta l'arte figurativa amplifica il risultato significante ed emozionale, permettendo all'arte di Anselm Kiefer di diventare opera all'interno dell'opera. Decisamente meritati i premi per il miglior film al Chicago Film Festival e quello della critica internazionale Fipresci a Cannes.
Il documentario segue cronologicamente - con qualche salto e ritorno alla gioventù - la carriera di Kiefer dall'inizio degli anni Settanta a oggi, un cinquantennio in cui l'artista tedesco, nato a Donaueschingen nel 1945, è diventato uno dei nomi più discussi e famosi dell'arte contemporanea.  Wenders divide le epoche con delle didascalie a schermo intero che riportano gli anni e gli atelier di Kiefer: si va così dal 1971-82, a Hornbach nell'Odenwald (Baden-Württemberg), fino all'ultimo trentennio, dal 1992 al 2020, in cui l'artista si è diviso tra La Ribaute, la tenuta ed ex fabbrica a Barjac, in Occitania, e Croissy, a est di Parigi. E, tra questi macroperiodi, il montaggio ci porta anche più indietro, a un giovane Kiefer, grazie a filmati di quando era allievo di Joseph Beuys, o persino a parti in cui lo vediamo bambino, interpretato da un giovanissimo attore che cammina in pantaloncini corti tra le macerie della guerra, proprio come faceva il protagonista di Germania anno zero (Rossellini 1948). Il film torna a tutto questo quasi per cercare di dare un'origine all'arte di Kiefer, rimontare alla sua infanzia per spiegare il dolore e la sofferenza messa in materia e in immagine.
Gli ansimi iniziali fuori campo all'inizio del film ci catapultano immediatamente in questa logica, che non si allevia col passare del tempo ma, anzi, ci fa addentrare negli spazi e nelle sue opere. Al massimo ci si abitua al dolore, normalizzando ciò che non dovrebbe essere norma.
Vediamo così alternarsi sullo schermo le spose in bianco di resina e gesso, le cui teste sono costituite da metalli raffiguranti pianeti, rami, torri, libri, lampade, mattoni e pellicole cinematografiche, ma le voci in sottofondo non si placano, anzi, ora sembrano essere quelle di donne antiche, streghe (?), che si aggirano in quelle campagne.
Gli spazi, così come molte opere di pittura (seppur multimateriche), sono enormi e Kiefer si muove in bicicletta all'interno di questi immensi atelier, che tanto ricordano i capannoni dei grandi studi cinematografici. Di volta in volta lo seguiamo tra le ali dei quattro arcangeli (Uriele, Gabriele, Raffaele, Michele), delle torri de I palazzi celesti, dei grandi libri in piombo che racchiudono foto aeree ("la pelle del mondo"), delle tele che rimandano alla sua interpretazione di Germania de-industrializzata del Morgenthau Plan, delle grandi lastre su cui dipinge con grandi spatole, davanti a cui si muove con bracci meccanici e su cui interviene con il lanciafiamme, mentre i suoi collaboratori sono pronti a spegnere subito tutto con la pompa. Wenders riprende tutto in maniera sopraffina, riuscendo a fare poesia anche con la desolazione delle colonne di cemento o con gli interni abbandonati, tra cui coglie i raggi solari che impattano sulle opere di Kiefer.
Alla poesia delle immagini fa da contrappunto la poesia della musica, nella drammatica e intensa colonna sonora di Leonard Kussner, che prende allo stomaco con brani come An die Sonne, Snowfields, Forest, che accompagnano atmosfere e paesaggi, la trionfalistica America e Barjac Venice, che segnano alcuni dei luoghi principali del documentario. 
Il cineasta tedesco, con gli occhi del biografo, non manca di ricordarci le tante polemiche, soprattutto in patria, sull'attività iniziale di Kiefer quando, nel 1969, l'artista si fece fotografare in divisa nazista (quella del padre) e col braccio destro teso in diversi luoghi di Svizzera, Francia e Italia (c'è anche il Colosseo), spesso in lande desolate, nella serie Occupazioni. Il suo obiettivo? Evitare l'oblio e chiedersi cosa sarebbe stato lui durante il nazismo (una domanda che molti intellettuali tedeschi a suo avviso non si ponevano). A Kiefer, poi soprannominato il "maestro dell'irritazione sottile", la critica tedesca non perdonava nemmeno di aver attinto alla letteratura eroica della Germania, da Parsifal ai Nibelunghi, su cui il nazismo aveva basato la propria retorica, considerandolo un reazionario. E invece per Kiefer quello era un processo di riappropriazione delle proprie radici a cui gli artisti hanno diritto.
Wenders ne interpreta il pensiero e ce lo mostra bambino mentre legge qualche verso sugli Argonauti, perché "il mito risponde a cosa siamo", andando oltre la razionalità.
Anche Martin Heidegger, ci viene ricordato, rinunciò a parlare del nazismo, sentendosi inadeguato per l'argomento. Kiefer, invece, sembra dirci il regista, rompe il suo silenzio in merito con i polimaterici realizzati anche grazie al lanciafiamme.
Sul reale pensiero di Kiefer non si possono avere dubbi ("l'intera civiltà se ne stava in silenzio"), tanto più che molte sue opere sono legate a doppio filo ai versi di Paul Celan, poeta rumeno, di cultura ebraica e di lingua tedesca, che ha provato a dare una risposta di Theodor W. Adorno sull’impossibilità di scrivere poesie dopo Auschwitz, in poesia quello che Kiefer ha fatto in arte figurativa.
Resurrexit e Sulamith
E lo dimostra, per esempio, un'opera come Resurrexit (1973), paesaggio straziante con alberi spogli in cui un serpente e una scala verso l'alto sono posti agli antipodi, un'immagine della Foresta Nera, che oltre a essere un motivo tipico della poesia di Celan è anche il luogo della passeggiata che il poeta fece al suo primo incontro proprio con Martin Heidegger. Lo stesso si dica della cupa architettura dipinta in Sulamith (1983), che evoca sì la sposa del Cantico dei cantici, ma rimanda chiaramente alla poesia di Celan Fuga di morte, che contrappone due donne nel campo di concentramento, Margarete dai capelli d’oro e proprio Sulamith dai capelli di cenere (leggi).
Le idee di Anselm Kiefer sono chiare, "l'uomo cerca la leggerezza perché non vuole vedere la pesantezza, l'abisso".
Come fatto per l'epica classica e teutonica, l'artista recupera anche la Bibbia, ma lui, tra 1987 e 1990 intitola un'opera Lilith, in omaggio a quella che una leggenda ebraica (e prima mesopotamica) ricorda come la prima moglie di Adamo, allontanata dall'Eden perché, nata dalla terra come lui, vuole essere un suo pari. Un tema femminista forte, antico e pressoché ignoto al grande pubblico, che veniva trattato da un artista che i più vedevano come un conservatore. Wenders torna anche al 1963, quando il liceale Anselm vinse il premio Jean Walter, che gli permise di mettere in pratica un progetto di viaggio che lo portò a ripercorrere quello di Vincent Van Gogh - chi meglio di lui per raccontare il dolore -, e poi ci conduce fino alle retrospettive di Kiefer e alle sue mostre personali negli Stati Uniti (Chicago, Los Angeles e New York, Moma).
Infine, il ciclo per la 59° Biennale d'Arte a Venezia nel 2022, a cui faceva da cappello la frase del filosofo Andrea Emo (1901-83), all'insegna ancora del nichilismo: "Questi scritti, quando verranno bruciati, daranno finalmente un po’ di luce". I dipinti vennero esposti nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale, quella in cui un tempo si concludevano i conteggi dei voti per l'elezione del doge. Un luogo in cui storia, mito e memoria si adattano perfettamente al mondo di Kiefer, che infatti il regista immortala nella Sala del maggior consiglio, in un suggestivo faccia a faccia con lo straordinario Paradiso di Jacopo Tintoretto (1588-92).
E in quelle sale vediamo ancora quel bambino (che di primo acchito ci inquieta come i bambini in Heimat, Reitz 2004-2013 o ne Il nastro bianco, Haneke 2009), in una poetica fusione tra il fanciullo e il sé attuale, arriva nella sala veneziana grazie a una scala di corda, ma non prima di essersi sdraiato in un campo tra i girasoli, bruciati... i campi di Van Gogh sono ormai anch'essi dolore e morte, eppure un girasole è lì, rigoglioso sul petto del ragazzo, quasi fosse un novello albero di Jesse. "La fanciullezza è una stanza vuota, come l'inizio del mondo".
Poesia e arte si sfiorano e arrivano a coincidere, come il fanciullo e l'anziano Anselm Kiefer, mentre la musica di Kussner li unisce in Anselm...

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