mercoledì 31 luglio 2024

Green border (Holland 2023)

Agnieszka Holland e la sua accusa ai potenti della Polonia e dell'Europa. Una condanna senza appello, coraggiosa, perché arriva proprio da una regista polacca - non a caso dal 1981 residente in Francia -, che racconta la follia della guerra combattuta al confine tra il suo paese e la Bielorussia.
A quei confini fa riferimento il "green border" del titolo, anche se quel colore lo vediamo per pochi secondi, all'inizio dei titoli di testa, quando un drone riprende la foresta che caratterizza quello spazio liminale tra due realtà che rappresentano lo stesso inferno. Sembra una ripresa di Terrence Malick e fa istintivamente pensare a La sottile linea rossa (1998), uno dei film bellici più belli e struggenti degli ultimi decenni (trailer). Dopo quei pochi secondi, però, il colore sbiadisce e la mdp si limiterà a riprendere tutto in bianco e nero, il colore dell'esattezza, quello della precisione chirurgica, quello della resa documentaristica che Green border propone, scendendo tra le persone che popolano quella striscia di territorio fatta di morte e di assenza di civiltà.
È l'ottobre del 2021 e su quella striscia, dopo essere atterrata con un aereo delle Turklines, arriva una famiglia proveniente da Harasta, città a sud-ovest della Siria, dove imperversa l'ISIS. Ci sono il nonno (Mohamad Al Rashi), marito e moglie, Bashir (Jalal Altawil) e Amina (Dalia Naous), e tre figli, tutti minorenni, il primogenito Nur (Taim Ajjan), la sorellina Ghali (Talia Ajjan) e un neonato. A loro, che hanno l'obiettivo di raggiungere la Svezia, dove vive il fratello di Amina, si unisce anche Leila (Behi Djanati-Atai), una donna afgana, anche lei in fuga dalla guerra e dalla furia dei talebani.
Il passaggio del confine dalla Bielorussia alla Polonia, e quindi l'ingresso in Europa, è un passo importante, su cui molti speculano, come accade in molti altri confini e, così, pagare per oltrepassare il filo spinato non è garanzia di un bel niente. Presto i nostri protagonisti si confondono in una massa di persone che ha scoperto, come ora spetta anche a loro, di essere numeri, "palloni" dice qualcuno, con cui Polonia e Bielorussia giocano lanciandoli da una parte all'altra.
Quella che sembra essere una metafora è in realtà quello che accade sul serio: l'impietosa mdp di Holland ci mostra spesso persone spinte, costrette a varcare di nuovo il confine, senza soluzione di continuità, un destino che talvolta spetta anche ai morti, cadaveri che hanno ancora un "peso" nella logica bellica e di frontiera, sono un numero, un punto di una gara assurda, in cui avere il corpo di un immigrato in più è considerata una sconfitta.
La mdp di Holland, coaudiuvata dalla fotografia di Tomasz Naumiuk e dalla musica di Frédéric Vercheval, non lascia speranza e, in quest'inferno in bianco e nero, i poliziotti di frontiera sono addestrati all'odio nei confronti dei profughi, tacciati di ricchezze più o meno nascoste (tipico leitmotiv dell'intolleranza a qualunque latitudine). Per questo bastonano, picchiano, aizzano i cani a mordere, vendono bottiglie d'acqua a 50 euro che poi versano a terra, fanno bere persone assetate facendogli ingoiare i vetri dei termos appositamente rotti all'interno. Molti abitanti della zona la pensano come loro e persino le ambulanze e i medici possono dichiararsi "obiettori di coscienza" al telefono con i volontari che chiedono aiuto e restano ogni volta increduli davanti a chi ha effettuato il giuramento di Ippocrate prima di intraprendere la professione.
Chi non concorda con chi vuole i profughi lontani dai propri confini è ritenuto un benpensante, un ricco che non ha bisogno delle risorse che chi arriva inevitabilmente prosciuga. O almeno così si fa credere ai più. Chi aiuta non ha mezzi risolutivi, ma solo palliativi che spesso rischiano solo di allungare l'agonia delle persone, a cui offrono cibo, coperte, vestiti, cure per le ferite, per piedi afflitti dalle piaghe, consulenze legali per ottenere i visti.
Holland, dopo la parte iniziale, divide il suo saggio-documentario in capitoli che mostrano i diversi ruoli dei cittadini polacchi di fronte alla crisi migratoria: le vite dei singoli che si incontrano all'interno di un contesto di cui loro sono solo piccoli ingranaggi . E così, conosciamo più da vicino Jan (Tomasz Włosok), uno dei giovani soldati impiegati sul confine (cap. 2 - La guardia di frontiera), i medici e i volontari che cercano di soccorrere i profughi (cap. 3 - Gli attivisti), ma anche una psicologa che si unisce a chi vuole aiutare (cap. 4 - Julia).
Bashir e Ghali e i bacio de L'infanzia di Ivan
I soldati vengono "caricati" da chi li forma contro un nemico immaginario, ma non bastano questo e i momenti di "svago", squallide serate tra alcol e sesso, per evitare almeno nei soggetti più sensibili le crisi esistenziali per le azioni che compiono loro in prima linea.
Julia (Maja Ostaszewska), che ha perso il marito per il COVID e con una madre affetta da malattia senile, vive in una sorta di isolamento in una casa a ridosso della foresta e incontra on line i suoi pazienti: si avvicina ai volontari dopo aver visto la morte con i propri occhi, si sente dire da un'amica che per lei è facile, perché non ha famiglia, tipica critica di chi non ha il coraggio di agire, e paga l'inesperienza e l'impulsività delle proprie azioni.
Green border, come detto, è un film che rischia di apparire a tratti un documentario e la forza della verità è indubbiamente una sua caratteristica peculiare, ma questo non vuol dire che dietro la mdp non ci sia una regista di talento che in tante occasioni mostra la sua presenza. Un caso su tutti quello in cui ci mostra Bashir che prende in braccio la piccola Ghali per farle superare un fosso, in una posa a gambe aperte sul fosso stesso, che non può ricordare una delle immagini più famose di tutto il cinema dell'Europa dell'Est e non solo, l'iconico bacio tra l soldato Kholin e l'infermiera Masha ne L'infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij (1962).
In sceneggiatura c'è spazio per il mondo globalizzato, abusato termine di una tendenza umana esistente dall'antica Roma e dal Medioevo, oggi semplicemente più veloce per via della tecnologia e del conseguente accesso facilitato ai mezzi di comunicazione.
Il calcio è indubbiamente uno degli elementi "globalizzanti" odierni e, nonostante la situazione che i personaggi vivono, è sempre presente, come accadeva in parte anche in Io capitano con le maglie e le tute indossate dai protagonisti. Così Nur cita Mbappè e Kasia (Malwina Buss), la compagna incinta di Jan, pensa ai nomi da dare alla figlia che verrà e ipotizza Klara o Laura in omaggio alle figlie del campione polacco Robert Lewandowski.
La musica anche può essere un fattore  aggregante. Jan e Julia, in modi diversi, possono salvare qualcuno, contravvenendo o aggirando le regole, ma a essere sbagliate sono le regole che costringono tutti a Mourir millefois. Le parole del brano rap di Youssoupha le cantano i ragazzi africani soccorsi da Julia e i figli polacchi di Bogdan (Maciej Stuhr), un suo paziente ricco e furioso contro il governo polacco.
Infine un terzo elemento che accomuna tutti è lo smartphone, che per i profughi rappresenta l'unica possibilità di contatto con il mondo, con i parenti, con la speranza di uscire da una situazione che non lascia scampo.
I cellulari servono anche per i video in cui uomini e donne mostrano cartelli "I want asylum in Poland", ma nessuno può fare nulla di fronte alla tragedia, nemmeno la fede, su cui Holland è spietata come con la politica. Una delle attiviste più esperte esplode in una fragorosa risata quando Julia spera nell'intervento del parlamento europeo, e le ricorda che dal 2015 sono stati 200 mila i morti di frontiera, tra foreste, montagne, mari, ecc.
E così, se i disperati membri rimasti della famiglia siriana vengono ripresi seduti davanti a un muro su cui è dipinta la bandiera europea, mentre ricevono l'elemosina, in un'associazione visiva che vale più di mille parole, quando il nonno prega Allah dopo aver steso un piccolo tappeto nella foresta, inizia il diluvio...
Il 22/2/22 è una data simbolica per l'epilogo e Holland la utilizza per delle statistiche inevitabilmente polemiche: da allora la Polonia ha accolto due milioni di ucraini, mentre dal 2014 in quel maledetto confine sono morti 30 mila profughi, un contrasto davvero sconcertante.
L'urlo di Jan è munchiano ed è l'urlo della regista ad Andrzej Duda, al governo e agli organi di informazione polacchi che - anche nel film - celebrano i soldati che "garantiscono la sicurezza". La realtà, come sempre, dipende da dove la si guarda, e non a caso la regista polacca ha dichiarato che dopo l'uscita della pellicola in patria è considerata "una minaccia per la sicurezza nazionale polacca". Per chi scrive e per molti altri, invece, ha strameritato il premio della giuria a Venezia, e non va dimenticato che in Polonia, dove ha riempito le sale, il film è stato proiettato con un video di avvertimento voluto dal governo... ognuno scelga liberamente quale sia la realtà, ricordando che ogni scelta è una presa di posizione politica, come il cinema di Agnieszka Holland!

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