mercoledì 6 novembre 2024

Berlinguer. La grande ambizione (Segre 2024)

Apro l'analisi di questo film con la considerazione di Elio Germano che, alla proiezione in anteprima al Nuovo Sacher, lo scorso venerdì 1° novembre, si è soffermato nel precisare che nell'epoca affrontata dalla pellicola chi era a capo di un partito si autodefiniva segretario e non leader, segno che l'ascesa politica fosse principalmente un servizio verso gli altri e non solo spudorato egocentrismo.
Che questo concetto, poi, sia stato espresso davanti a Nanni Moretti, non può non fare pensare a "le parole sono importanti", "chi parla male, pensa male e vive male" (Palombella Rossa, 1984, 1-2).
E in effetti oggi sembra di essere anni luce da quegli anni, in cui la gente, le singole persone si identificavano con politici da cui si sentivano davvero rappresentati, ma qui mi fermo, perché altrimenti scadrei nella prosa più retriva del passatismo (trailer). L'esergo del film, però, accentua ancora di più il divario di pensiero tra le due epoche, facendo ricorso a una frase di Antonio Gramsci da cui deriva il sottotitolo e che dà il senso dell'ideale politico di allora e dei suoi modelli: "Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo".
Impossibile, sin dalle prime immagini, guardare il film di Segre senza porlo in parallelo a Esterno notte (Bellocchio 2022), e non ne faccio un discorso qualitativo ovviamente, quanto storico, d'ambientazione, di vita vissuta. Due film in corrispondenza di amorosi sensi verrebbe da dire, e che la pellicola del regista veneto si chiuda proprio con il rapimento e la morte di Aldo Moro, a cui fa da coda un filmato di repertorio dei funerali di Berlinguer del 7 giugno 1984, conferma una sensazione che si ha per tutta la durata della pellicola.
Segre e, con lui, un Elio Germano che ci regala un'interpretazione puntuale, chirurgica che, nonostante la difficile somiglianza fisica col personaggio, rende ala perfezione il lato intimo, semplice e familiare dell'uomo Berlinguer, sceglie di raccontare un periodo molto ristretto della sua vita.
Del segretario del PCI seguiamo le vicende che vanno dal 1973 al 1978, con l'ascesa di una sinistra che diventa il partito comunista col più ampio consenso nell'Europa occidentale, al 25% prima e al 34,4% nel 1976, che portò Berlinguer e gli altri dirigenti a tentare di entrare nel governo con il famoso compromesso storico, osteggiato dai militanti di sinistra, osteggiato da gran parte della DC, e in cui, con notevole lungimiranza, sembravano credere solo Berlinguer e Aldo Moro. Quest'ultimo, in un dialogo toccante (che fa il paio con quello in macchina di fianco al monumento di Giuseppe Mazzini in Esterno notte) sa di essere una voce fuori dal coro nel proprio partito ed è onestamente sorpreso dalla trasformazione del PCI avvenuta con Berlinguer. E naturalmente, il rapimento del presidente della DC è l'evento che ha arrestato ogni tipo di trattative in tal senso.
Il film ci dice chiaramente questo, e di fatto questa è la storia dei fatti, anche se il clima che si respirava in quegli anni fa supporre che ci sarebbero stati tanti altri modi di interrompere quel dialogo e che, anche senza l'attentato di via Fani e le sue conseguenze, difficilmente i gruppi di potere italiani avrebbero permesso riforme e un certo livellamento sociale nella lotta di classe del tempo... Il PCI, d'altronde, come dice Berlinguer più volte, con quel compromesso vorrebbe aumentare le libertà dell'individuo, una battaglia che si combatte ancora oggi, figuriamoci, in anni in cui, come nel 1974, Amintore Fanfani, dirigente DC dell'ala più conservatrice, riesce a indire il referendum per abrogare il divorzio, appena approvato nel 1970.
Sulla chiusura dei gruppi dominanti nei confronti del cambiamento, Segre è lapidario e si schiera apertamente, mostrandoci in un'intervista d'epoca - il film fa spesso ricorso a immagini del tempo - Gianni Agnelli che, con un volto particolarmente tirato, chiarisce che non amerebbe affatto un'Italia che andasse in una direzione socialista, dando la sensazione che il duo Agnelli-Andreotti avrebbe avuto molta più voce in capitolo per le sorti del paese di quello Moro-Berlinguer.
E in effetti, in quegli anni di Guerra Fredda tra USA e URSS, il vero timore di Berlinguer è che l'ascesa del PCI non venga vista con favore da industriali e gruppi dominanti, spingendo a una recrudescenza della destra più violenta, intransigente e nostalgica, magari con un colpo di stato come appena avvenuto in Cile, l'11 settembre 1973, con il rovesciamento del governo di Salvador Allende da parte dell'esercito, dando inizio alla dittatura militare di Augusto Pinochet.
L'ingerenza degli Stati Uniti anche sui paesi del blocco NATO non è poi una previsione così peregrina e per questo per Berlinguer l'unica via è quella di pensare a un'idea democratica socialista che porti a un governo di larghe intese che accontenti quasi tutti, tagliando fuori i gruppi estremisti.
Se a Sofia il leitmotiv è che la borghesia "alla resa dei conti" sceglie sempre di andare a destra, e che quindi Berlinguer non debba essere ingenuo come Allende, a Mosca l'atteggiamento è ancora più duro. Il famoso discorso tenuto dal segretario del PCI nel 1976 al Cremlino al cospetto di un perplesso Breznev su cui non mancano battute sardoniche degli italiani ("sembra Stalin con i baffi sopra gli occhi"), viene salutato con diffidenza (vedi). Come dice Ingrao sul patto di reciproco rispetto chiesto da Breznev a Berlinguer, date le posizioni molto distanti, "hanno sconfitto Napoleone e Hitler, sopporteranno anche questo".
Moro (Citran) e Andreotti (Pierobon)
In Bulgaria Berlinguer subisce anche un attentato, coinvolto in un incidente in auto che causa la morte a uno degli uomini che sono lì con lui e che, in una concessione cinefila, gli ha appena chiesto quale sia il suo film preferito di Fellini, che vorrebbe conoscere in Italia. Quel Fellini che poi, nei filmati di repertorio, vedremo al funerale di Berlinguer, al pari di Ettore Scola, Monica Vitti, Marcello Mastroianni e tanti altri.
Sono molti i personaggi di allora a cui il film dà un volto e che meritano attenzione. L'intera famiglia di Berlinguer: la moglie Letizia Laurenti (Elena Radonicich), che ripete costantemente che pensava di aver sposato un semplice funzionario e non certo un segretario di partito; e i quattro figli, la più piccola, Maria (Giada Fortini) che a quell'idea di "grigio funzionario" dà immagine nei suoi disegni da bambina; Laura, Marco e la primogenita, Bianca (Alice Airoldi), la futura giornalista già impegnata politicamente.
Menichelli, Barca, Ingrao, Iotti, Pecchioli, Terracini
E poi l'autista di Berlinguer, Alberto Menichelli (Giorgio Tirabassi), e gli altri funzionari e onorevoli del PCI, come Pietro Ingrao (Francesco Acquaroli), Umberto Terracini (Stefano Abbati), Luciano Barca (Andrea Pennacchi), Armando Cossutta (Fabio Bussotti), Ugo Pecchioli (Paolo Calabresi), Gianni Cervetti (Lucio Patanè), ma anche Nilde Iotti (Fabrizia Sacchi), colei che, dopo tutti gli avvenimenti raccontati dal film, diverrà la prima donna a presiedere la Camera dei deputati nel 1979, peraltro tre anni dopo che la stessa sorte era toccata al compagno di partito Ingrao.
Restano Aldo Moro, interpretato da Roberto Citran, e Giulio Andreotti, colto nella sua mania di collezionare bustine di zucchero, nei cui panni recita Paolo Pierobon, trait d'union con Bellocchio, per il quale è stato recentemente papa Pio IX nel bellissimo Rapito (2023).
Molti i momenti umani e familiari di Berlinguer, che vediamo spesso in casa, con i figli, ai quali dopo il rapimento di Moro dice chiaramente di prepararsi a qualcosa di simile, perché potrebbe succedere anche a lui, e di non accettare trattative coi rapitori anche se lui stesso dovesse chiederlo. Un discorso da brividi, che è un acme di intensità emotiva in un rapporto con i ragazzi in cui Enrico padre è presente, comunicativo, dolce. La visita di una vecchia zia è l'occasione per raccontarci anche il Berlinguer bambino sempre in giro per i vicoli di Sassari, in mezzo alla gente del popolo, e poi l'immancabile bicchiere di latte che gli vediamo spesso tra le mani e che, come racconta a Maria sulla spiaggia di Stintino, è stata anche l'unica speranza di cura che offriva alla madre quando, appena quattordicenne, la stava per perdere.
In una sequenza vediamo anche i Berlinguer in un semplice picnic di famiglia e, in un accenno decisamente morettiano, Enrico da due calci a un pallone con il figlio (una curiosità: scrive con la destra e calcia col sinistro, come tanti mancini "addestrati" a scuola allora), mentre parla di comunismo e capitalismo, di capacità e bisogni in senso marxista. E poi l'amore con Letizia, rassegnata ma col sorriso per aver sposato un uomo molto più impegnato di quanto pensasse all'inizio, e a cui Enrico rivolge parole bellissime in una lettera: "questo tuo pungolarmi il cuore è la forma più alta d'amore che io conosco".
Un po' di storia dell'arte qua e là nella scenografia, che ripete l'immagine de Il quarto stato (1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo (Milano, Galleria d'Arte Moderna), la cui riproduzione è appesa nella fabbrica ANIC di Ravenna, dove Berlinguer va nel novembre 1973, ma anche nella sede del PCI a via delle Botteghe Oscure.
Nell'ufficio di Andreotti, infine, oltre a incisioni con l'Aracoeli e la basilica di San Pietro, dietro le sue spalle vediamo un dipinto seicentesco ancora da identificare (una Negazione di Pietro?).
Asciutta la regia di Andrea Segre, che però si lascia andare ad alcuni carrelli indietro, prima accompagnando Andreotti e Moro che avanzano lungo la sala del Transatlantico di Montecitorio in direzione della mdp, e poi nelle vie di Roma vuote, proprio dopo le trattative del PCI con Andreotti, un bel modo di sottolineare le speranze di una sinistra che si allontanano lasciando dietro di sé il deserto, poiché "questo paese finirà nel baratro". E così il messaggio ecologista di Eppure soffia (1976) di Pierangelo Bertoli rischia di essere un nostalgico dire "qualcosa di sinistra", con il suo "eppure il vento soffia ancora"...

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