lunedì 14 gennaio 2019

Suspiria (Guadagnino 2018)

Ovvero come rendere lambiccato un capolavoro horror degli anni Settanta.
Guadagnino procede per "via di porre" all'infinito e, pur partendo da buone premesse, va alla deriva insieme al suo film che, nell'ultima mezz'ora e forse anche oltre, invece di tenere lo spettatore incollato alla poltrona lo induce a prendere più volte la via dell'uscita...
Il regista palermitano riprende il soggetto del Suspiria che Dario Argento aveva scritto con la moglie Daria Nicolodi, lo articola in sei atti più un epilogo, e ambienta la sua storia nel 1977, l'anno di uscita dell'originale (trailer).
Da quello recupera l'elemento meno riuscito, il dialogo pseudoscientifico tra la protagonista e i due psichiatri, e prova a farne il centro propulsore della sua storia: la scena che fa da premessa alla vicenda, infatti, vede lo psichiatra Dr. Jozef Klemperer (Lutz Ebersdorf, alias Tilda Swinton), che consulta come un breviario La psicologia del transfert di Jung, con la giovane paziente Patricia Hingle (Chloë Grace Moretz), affetta da quelle che lui stesso definisce "ossessioni mitologiche".
La ragazza è in preda a una condizione di ansia costante a causa delle tre madri, quelle che nel XIX secolo Thomas de Quincey aveva creato nei suoi libri, cui si era ispirato lo stesso Dario Argento: la mater lacrimorum, la mater suspiriorum e la mater tenebrarum. Alcune frasi sussurrate da Pat, accovacciata sulla poltrona del medico, accendono delle luci e gettano dei ponti su chiunque conosca il film precedente. "in quell'edificio c'è più di quanto si possa vedere", "la madre Markos vuole entrare dentro di me".
Guadagnino lo segue in buona parte: la scuola di danza, i lunghi corridoi, i passaggi segreti all'interno dell'edificio, la chiave stregonesca e i personaggi, modifica alcuni dettagli, ma poi la sua storia si arricchisce di innumerevoli altre piste non sempre adeguatamente sviluppate, e sarebbe impossibile, altrimenti avrebbe dovuto girare una serie.
Il Grand Hotel a Varese e nel film
Susie Bannion (Dakota Johnson), che allora era Benner, stavolta proviene dall'Ohio e non da New York, dove è cresciuta in una famiglia amish, e arriva alla scuola in una simile giornata di pioggia anche se a piedi e non in taxi come nel film di Dario Argento. Il personaggio della figlia e nipote d'arte - un fattore che in una pellicola incentrata sul tema della Madre assume un fascino esponenziale - appare, però, molto più consapevole e priva di quel senso di spaesamento del suo precedente. 
Il regista riprende anche l'architettura liberty: la scuola di danza, sulla cui sommità campeggia appunto la scritta "tanz", è in realtà il Grand Hotel Campo dei Fiori, realizzato a Varese su progetto dell'architetto milanese Giuseppe Sommaruga ad inizio Novecento, ma nel film assume credibilmente il ruolo e la veste di un vecchio palazzo del Terzo Reich.
La scuola di danza non è più a Friburgo ma a Berlino, uno spostamento geografico che regala alla storia due filoni politici, quello contemporaneo, con i giornali che riportano titoli testimonianti attacchi terroristici in cui sembra essere coinvolta anche Pat, e passato, con il Nazismo come ricordo sempre presente, legato anche a miss Blanc, che ha salvato la scuola dal regime.
Iris, che allora era fiore e decorazione attorno a cui ruotava il labirintico rompicapo spaziale della fiaba horror allestita da Argento, ora è semplicemente il nome della sala prove delle ballerine.
Le due principali insegnanti, rispetto al precedente, hanno ruoli invertiti: la Tanner (Angela Winkler), che nel film del 1977, splendidamente interpretata da Alida Valli, aveva un peso maggiore, oggi è un personaggio di contorno, la Blanc, che allora era Blanche e aveva poco spessore, è qui una figura totalizzante. Iconograficamente modellata su Pina Bausch, con tanto di lunga treccia e immancabile sigaretta tra le labbra, le presta il volto un'inappuntabile Tilda Swinton: la sua interpretazione è tra le cose migliori dell'intero film. L'attrice recita in più lingue (inglese, francese, tedesco) e su di lei convergono le dualità della Grande Madre junghiana, poiché è sia l'amorevole insegnante che ha a cuore le sorti di Susie, sia la Helena Markos che ne chiede il sangue, oltre al già citato dottor Klemperer, sulla cui identità parte della stessa troupe non era informata e per la cui interpretazione la Swinton ha chiesto e ottenuto l'applicazione di una protesi con genitali maschili.
Tilda Swinton "Blanche" e Pina Bausch
Guadagnino regala diverse sequenze notevoli dal punto di vista registico: piroette in soggettiva, qualche surcadrage, ma a differenza di Argento, che usava la regia per aumentare la tensione, qui il virtuosismo appare fine a se stesso. Funzionano molto bene le scene di danza, soprattutto quella in montaggio alternato tra i progressi di Susie e la morte di Olga (Elena Fokina), su cui sembrano infierire i movimenti dell'altra a distanza.
La sequenza finale, o meglio, una di quelle che sembrano esserlo, è un sabba in versione danzata, un video musicale dalle tinte rosse, in cui Susie appare nel ruolo di vittima sacrificale per poi assumere il ruolo dominante, ça va sans dire, di mater suspiriorum. Helena Markos, che nel film di Dario Argento era l'esoterica fondatrice della scuola, qui diventa l'antagonista di Blanc e si nutre della carne delle ragazze per continuare a vivere: più che una decrepita vecchia spaventevole ricorda molto da vicino Jabba the Hutt di Guerre Stellari (Il ritorno dello Jedi, 1983), mettendo a repentaglio la credibilità del personaggio.
Tanti i simboli e gli oggetti apparentemente significanti: dai ganci metallici per suini che ricordano molto delle falci (riferimento politico?) e che le insegnanti-streghe usano e conservano in vetrina come oggetti rituali, a delle statuine in porcellana, dai sogni di Susie costellati di vetri rotti, mani insanguinate, ferri da stiro con cui la mamma la puniva quando era bambina, cuori pulsanti e vermi (che rimandano al film originale), fino alle ombre, una delle quali riproduce una famosa foto di Francesca Woodman, Come una farfalla (1976).
Anche in questo caso, però, i simbolismi non appaiono sempre funzionali alla storia e non accrescono quasi mai la tensione: persino un evento dirompente come l'improvviso suicidio di una delle insegnanti-streghe, che si riuniscono in cucina come delle massaie, appare un binario morto della trama, rimane privo di sviluppo.
Tra le dichiarate influenze della pellicola, inoltre, ci sono Balthus e Fassbinder, soprattutto Germania in autunno (1978), e proprio la moglie del regista tedesco, Ingrid Caven è una delle insegnanti-streghe della scuola, miss
La sceneggiatura lascia a Klemperer, come a Milius trent'anni prima, la spiegazione razionale dell'occultismo che gravita attorno alla scuola: "credo che le persone possano organizzarsi per perpetrare dei crimini e chiamare tutto magia"; "si possono trasmettere i propri deliri, lo fa la religione, lo faceva il Terzo Reich"; è lui che parla con Sara (una Mia Goth che a tratti ricorda davvero molto la Nancy Allen depalmiana) come Milius parlava con Susie, e le dice che "il delirio è una bugia che dice la verità" e che "l'amore e la manipolazione spesso convivono e sono compagni di letto".
La moglie di Josef Klemperer, Anke, è il più diretto omaggio al film del 1977, poiché veste i suoi panni, non del tutto concreti, proprio Jessica Harper, che nell'originale interpretava la spaesata e virginale protagonista Susie, mentre qui è una deportata ebrea che riappare al marito. D'altronde la colpa è uno dei temi principali del film, in senso junghiano, in cui le colpe dei genitori vanno accettate dai figli come dato proprio con cui fare i conti (la madre di Susie pronuncia un chiaro "è con lei che ho imbrattato il mondo"), e in senso storico, e ovviamente non si può affrontare il secolo scorso senza associare la colpa all'olocausto.
L'ipertrofico film di Guadagnino, infine, ci regala una gran bella colonna sonora firmata da Thom Yorke, cantante e non solo dei Radiohead. Con brani come Belongings Thrown In A River, Open AgainUnmade, ma soprattutto Suspirium, gli accenti cupi dominano, la tensione c'è ma non ha nulla a che vedere con quella epidermica che scatenava la musica dei Goblin nella pellicola originale. Qui, infatti, le note sembrano venire dal subconscio, una perfetta dinamica per quello che vuole essere un horror cerebrale, psichiatrico e intellettuale e che, nell'ansia di essere tutto questo, perde di vista le tante parentesi aperte.
Un horror quindi, che in fondo non lo è, nonostante il condimento splatter finale che prova a riattribuirgli un genere che, però, il film ha abbandonato durante il suo stesso svolgimento.
Ben vengano pellicole non ancorate ad un genere, ci mancherebbe, ma qui il rischio è di trovarsi di fronte ad un complesso groviglio tra storia del Novecento, psicanalisi, danza, femminismo, stregoneria, cinema, che non potrebbe sciogliere nemmeno il pettine con innumerevoli denti che Guadagnino usa come base grafica dei titoli degli atti e che evidentemente allude al pettine su cui la Susie argentiana trovava le larve, in una delle scene più famose del Suspiria del 1977.
Appare pretenzioso l'obiettivo di trasformare un film in un trattato sull'origine del Male, ed è proprio questa sensazione di pretenziosità non risolta che resta, anche se un'opera come questa potrebbe meritare più visioni e chissà che col tempo le cose ora confuse appaiano con dei contorni più netti... chissà! 

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