Pablo Larraín ha girato un altro film eccezionale e, ad un anno dal bellissimo Il Club (2015), lo ha presentato in anteprima alla Quinzaine der Réalisateurs di Cannes, confermandosi uno dei migliori registi in attività.
La sua versione della storia di Pablo Neruda è quanto di più lontano da una biografia tradizionale e andrebbe piuttosto definita un'allegoria letteraria, perché come ha dichiarato lui stesso "non è un film su Neruda ma un film nerudiano".
E che si tratti di una lettura particolare lo si capisce sin dall'inizio, quando il regista cileno ci mostra una riunione "informale" dei senatori all'interno di un bagno, con il comunista Pablo Neruda (Luis Gnecco) che difende il suo partito perché dalla parte dei lavoratori e del popolo... ma in un paese dove all'università si studia "l'arte dell'inganno burocratico", con cui si prevale sulla massa, il poeta viene presto incriminato.
È da questa premessa sui generis, ma ancora tutto sommato all'interno di binari consueti, che si dipana la vicenda che invece fa deragliare il soggetto in qualcosa di profondamente diverso: la lunga caccia del commissario Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), che il presidente Gabriel González Videla (Alfredo Castro) mette sulle tracce di Pablo Neruda, ribalta la gerarchia dei ruoli - l'antagonista diventa protagonista e non a caso Bernal è il primo nome in cartellone -, e trasforma il film in un Prova a prendermi (2002) surreale e ironico, decisamente più vicino a Buñuel che a Spielberg.
A riprova di tale ribaltamento, la voce narrante che ci accompagna per tutto il film è proprio quella di Peluchonneau, che ascoltiamo ancor prima che il personaggio faccia la sua apparizione sullo schermo, così come il commissario, che inevitabilmente vive nell'ombra del poeta, ripetendo costantemente a se stesso e al pubblico "io non sono un personaggio secondario", in quella che sembra la sua vera ossessione, ben più forte dell'incarico ricevuto.
Neruda si pone in continua relazione con quest'uomo che non conosce ma a cui in fondo si affeziona, ed è geniale l'idea di far trovare al suo inseguitore i propri libri con dedica, in una sorta di aggiornamento letterario degli indizi lasciati dal personaggio di DiCaprio a quello di Tom Hanks nel film di Spielberg.
Della vita pubblica del poeta il film ci mostra ben poco, e preferisce raccontare gli aspetti privati, il suo rapporto con la seconda moglie, Delia (Mercedes Morán), la sua frequentazione di case di piacere, i travestimenti da prostituta e da sacerdote per nascondersi sì, ma anche per semplice gioco. D'altronde per sfuggire al suo inseguitore lo vediamo persino mettersi in vetrina, con il volto all'interno di una cornice del negozio di un fotografo, in un dettaglio che sembra preso da un film di Buster Keaton o dei fratelli Marx.
La devozione di chi gli è stato accanto, come capita solo ai grandi uomini, è totale, e anche la prima moglie, l'olandese Maryka Hagenaar, arrestata dalla polizia per sfruttarne le sue potenziali recriminazioni, una volta messa davanti ad un microfono non riesce a trovare altri difetti dell'ex marito se non la bigamia e l'amore per le donne.
Il film è girato magnificamente, con la sua atmosfera rarefatta e sognante, a cui contribuisce in maniera determinante la fotografia di Sergio Armstrong, con i suoi esterni sovraesposti, e con quegli interni sporchi, non perfettamente illuminati, degni del realismo fiammingo seicentesco.
Larraín, inoltre, gioca con i generi del cinema classico e non solo. Riproduce momenti da noir anni '40 grazie ad una musica che ne recupera le tipiche sonorità, ma soprattutto all'iconografia dell'investigatore alla Marlowe-Bogart, di cui il commissario, con il suo cappello, sulla cui falda il regista indugia frequentemente, rappresenta una versione opposta, dell'incapace e dello sconfitto in partenza. E allo stesso modo gioca con il western e con la neve - un'associazione recentemente tornata in auge con Tarantino e Iñárritu in The Hateful Eight e The Revenant, ma che ha un suo filone ben testimoniato (leggi) - nello splendido finale ambientato nelle innevate distese dell'Araucanía, la regione centromeridionale del Cile.
Bella ed emozionante, inoltre, la scena in cui il regista mostra come nei luoghi pubblici, in fabbrica, nelle carceri, si recitino alcuni passi della poesia I nemici di Neruda, uno dei punti più alti del suo Canto general e simbolo del suo impegno politico, scritta contro i traditori e la dittatura, con quel reiterato "chiedo castigo" che la rende un vero e proprio canto liturgico civile.
La sceneggiatura, però, è forse anche superiore alla regia, disseminata di battute ironiche, taglienti, di valenza politica e sociale. Ai due protagonisti, com'è ovvio, spettano alcune delle battute più folgoranti. Il commissario "noi in Cile abbiamo un solo capo, il presidente degli Stati Uniti, di cui il presidente del Cile è la scimmia ammaestrata", dice con tono sardonico parlando di Videla; "l'intelligenza della polizia prevale sulla stupidità dello spagnolo", quando con un facile trabocchetto riesce ad ottenere la risposta voluta durante un interrogatorio .
E così dalla voce di Neruda ascoltiamo "per scrivere bisogna saper cancellare", sorta di sintesi del suo lavoro, oppure, durante un litigio con la moglie Delia, stanca di essere esule in patria, "ucciditi! Così posso scrivere altri vent'anni su di te", ma anche "il milionario è sempre più intelligente della legge dello Stato", in quello che è un complimento interessato ad un personaggio che sceglie di proteggerlo invece di denunciarlo alle autorità.
E tra le tante sequenze riuscite del film, una su tutte sembra assurgere al ruolo di scena madre, soprattutto per com'è scritta: mi riferisco a quella in cui la cameriera di un ristorante ha parole di profonda critica nei confronti di Pablo, che definisce un eroe privilegiato, dato che in fondo il governo non è intenzionato veramente a catturarlo per non dover fronteggiare un caso internazionale. La domanda orwelliana che la donna rivolge al poeta, quindi, è anche uno dei migliori passi della bellissima sceneggiatura: "il comunismo renderà tutti uguali come lei o come me?"
Gli attori sono perfetti: fantastico Bernal nella parte dell'antagonista-protagonista, ottimo Gnecco in un Neruda sornione e simpatico, così come la Morán che interpreta la moglie Delia. Larraín affida alcuni ruoli minori ai suoi attori feticcio: Alfredo Castro nei panni di Videla e Antonia Zegers - moglie del cineasta - in quelli della moglie del presidente cileno, Rosa Markmann, ma anche José Soza (il giovane gesuita "inquisitore" de Il Club) come padrone della tenuta nella regione, in cui il film trova il già citato epilogo prima dell'arrivo a Parigi di Neruda che, su un battello sulla Senna, viene presentato da Picasso (ennesimo Pablo del film, insieme a Larraín e allo stesso Neruda) ad un gruppo di giornalisti.
In fondo la cameriera aveva ragione e l'esilio del poeta è davvero un'altra cosa rispetto alla condizione di un comune perseguitato politico o di un comunista appartenente alle classi meno abbienti. Per quanto riguarda Peluchonneau, invece, ci resta il dubbio, esiste davvero o, come gli dice Delia quando viene interrogata, è solo una creazione di Neruda e una risposta al suo bisogno di avere un antagonista?
L'essenza della pellicola di Larraín è tutta in questa magnifica indeterminatezza, quando uscirà nelle sale non perdetelo per nessuna ragione!
La sua versione della storia di Pablo Neruda è quanto di più lontano da una biografia tradizionale e andrebbe piuttosto definita un'allegoria letteraria, perché come ha dichiarato lui stesso "non è un film su Neruda ma un film nerudiano".
E che si tratti di una lettura particolare lo si capisce sin dall'inizio, quando il regista cileno ci mostra una riunione "informale" dei senatori all'interno di un bagno, con il comunista Pablo Neruda (Luis Gnecco) che difende il suo partito perché dalla parte dei lavoratori e del popolo... ma in un paese dove all'università si studia "l'arte dell'inganno burocratico", con cui si prevale sulla massa, il poeta viene presto incriminato.
È da questa premessa sui generis, ma ancora tutto sommato all'interno di binari consueti, che si dipana la vicenda che invece fa deragliare il soggetto in qualcosa di profondamente diverso: la lunga caccia del commissario Oscar Peluchonneau (Gael García Bernal), che il presidente Gabriel González Videla (Alfredo Castro) mette sulle tracce di Pablo Neruda, ribalta la gerarchia dei ruoli - l'antagonista diventa protagonista e non a caso Bernal è il primo nome in cartellone -, e trasforma il film in un Prova a prendermi (2002) surreale e ironico, decisamente più vicino a Buñuel che a Spielberg.
A riprova di tale ribaltamento, la voce narrante che ci accompagna per tutto il film è proprio quella di Peluchonneau, che ascoltiamo ancor prima che il personaggio faccia la sua apparizione sullo schermo, così come il commissario, che inevitabilmente vive nell'ombra del poeta, ripetendo costantemente a se stesso e al pubblico "io non sono un personaggio secondario", in quella che sembra la sua vera ossessione, ben più forte dell'incarico ricevuto.
Neruda si pone in continua relazione con quest'uomo che non conosce ma a cui in fondo si affeziona, ed è geniale l'idea di far trovare al suo inseguitore i propri libri con dedica, in una sorta di aggiornamento letterario degli indizi lasciati dal personaggio di DiCaprio a quello di Tom Hanks nel film di Spielberg.
Della vita pubblica del poeta il film ci mostra ben poco, e preferisce raccontare gli aspetti privati, il suo rapporto con la seconda moglie, Delia (Mercedes Morán), la sua frequentazione di case di piacere, i travestimenti da prostituta e da sacerdote per nascondersi sì, ma anche per semplice gioco. D'altronde per sfuggire al suo inseguitore lo vediamo persino mettersi in vetrina, con il volto all'interno di una cornice del negozio di un fotografo, in un dettaglio che sembra preso da un film di Buster Keaton o dei fratelli Marx.
La devozione di chi gli è stato accanto, come capita solo ai grandi uomini, è totale, e anche la prima moglie, l'olandese Maryka Hagenaar, arrestata dalla polizia per sfruttarne le sue potenziali recriminazioni, una volta messa davanti ad un microfono non riesce a trovare altri difetti dell'ex marito se non la bigamia e l'amore per le donne.
Il film è girato magnificamente, con la sua atmosfera rarefatta e sognante, a cui contribuisce in maniera determinante la fotografia di Sergio Armstrong, con i suoi esterni sovraesposti, e con quegli interni sporchi, non perfettamente illuminati, degni del realismo fiammingo seicentesco.
Larraín, inoltre, gioca con i generi del cinema classico e non solo. Riproduce momenti da noir anni '40 grazie ad una musica che ne recupera le tipiche sonorità, ma soprattutto all'iconografia dell'investigatore alla Marlowe-Bogart, di cui il commissario, con il suo cappello, sulla cui falda il regista indugia frequentemente, rappresenta una versione opposta, dell'incapace e dello sconfitto in partenza. E allo stesso modo gioca con il western e con la neve - un'associazione recentemente tornata in auge con Tarantino e Iñárritu in The Hateful Eight e The Revenant, ma che ha un suo filone ben testimoniato (leggi) - nello splendido finale ambientato nelle innevate distese dell'Araucanía, la regione centromeridionale del Cile.
Bella ed emozionante, inoltre, la scena in cui il regista mostra come nei luoghi pubblici, in fabbrica, nelle carceri, si recitino alcuni passi della poesia I nemici di Neruda, uno dei punti più alti del suo Canto general e simbolo del suo impegno politico, scritta contro i traditori e la dittatura, con quel reiterato "chiedo castigo" che la rende un vero e proprio canto liturgico civile.
La sceneggiatura, però, è forse anche superiore alla regia, disseminata di battute ironiche, taglienti, di valenza politica e sociale. Ai due protagonisti, com'è ovvio, spettano alcune delle battute più folgoranti. Il commissario "noi in Cile abbiamo un solo capo, il presidente degli Stati Uniti, di cui il presidente del Cile è la scimmia ammaestrata", dice con tono sardonico parlando di Videla; "l'intelligenza della polizia prevale sulla stupidità dello spagnolo", quando con un facile trabocchetto riesce ad ottenere la risposta voluta durante un interrogatorio .
E così dalla voce di Neruda ascoltiamo "per scrivere bisogna saper cancellare", sorta di sintesi del suo lavoro, oppure, durante un litigio con la moglie Delia, stanca di essere esule in patria, "ucciditi! Così posso scrivere altri vent'anni su di te", ma anche "il milionario è sempre più intelligente della legge dello Stato", in quello che è un complimento interessato ad un personaggio che sceglie di proteggerlo invece di denunciarlo alle autorità.
E tra le tante sequenze riuscite del film, una su tutte sembra assurgere al ruolo di scena madre, soprattutto per com'è scritta: mi riferisco a quella in cui la cameriera di un ristorante ha parole di profonda critica nei confronti di Pablo, che definisce un eroe privilegiato, dato che in fondo il governo non è intenzionato veramente a catturarlo per non dover fronteggiare un caso internazionale. La domanda orwelliana che la donna rivolge al poeta, quindi, è anche uno dei migliori passi della bellissima sceneggiatura: "il comunismo renderà tutti uguali come lei o come me?"
In fondo la cameriera aveva ragione e l'esilio del poeta è davvero un'altra cosa rispetto alla condizione di un comune perseguitato politico o di un comunista appartenente alle classi meno abbienti. Per quanto riguarda Peluchonneau, invece, ci resta il dubbio, esiste davvero o, come gli dice Delia quando viene interrogata, è solo una creazione di Neruda e una risposta al suo bisogno di avere un antagonista?
L'essenza della pellicola di Larraín è tutta in questa magnifica indeterminatezza, quando uscirà nelle sale non perdetelo per nessuna ragione!
Nessun commento:
Posta un commento