Un documentario sul più bello e forse il più importante libro di cinema mai scritto, nato dall'incontro di due grandi registi, uno dei quali fu ed è ancora tra i più influenti di sempre. Ascoltare le voci dei protagonisti durante l'intervista che portò a quel libro e risfogliare idealmente quelle pagine regalano momenti indimenticabili a chiunque ami il cinema. In una parola: imperdibile!
Kent Jones ha deciso di celebrare Il cinema secondo Hitchcock, uscito nel 1966, aggiornato dallo stesso Truffaut con i film successivi di Hitchcock fino al 1976, e diventato un modello di approccio cinematografico: pensate a quante monografie su registi celebri hanno ripreso la formula e spesso, parafrasandolo o meno, anche il titolo, omaggiato nel suo piccolo anche da questo stesso blog (penso ai libri su John Ford, Chabrol, Scorsese, Lynch, Cronenberg, Ioseliani e chissà quanti altri, oltre alle tante rassegne cinematografiche che hanno usato negli anni il titolo "Il cinema secondo...").
Tutti concordano sulla portata rivoluzionaria di quel libro, che ha cambiato definitivamente, oltre che il loro rapporto col cinema, il giudizio della critica coeva su Alfred Hitchcock, fino ad allora considerato poco più di un buon mestierante.
E ancora, è bellissimo sentire Truffaut spiegare a Hitchcock la sequenza de I quattrocento colpi - che Alfred dimostra di non aver visto - in cui Antoine scopre per le strade di Parigi una storia adultera di sua madre, con quest'ultima che si chiede "mi avrà visto?" e Hitchcock che sentenzia: "avrei preferito non si dicesse nulla". In questa semplice battuta, infatti, c'è un altro motivo fondamentale del suo cinema, in base alla quale i film muti sono l'unica forma di cinema puro, contestando che il sonoro, risolvendo tanti problemi narrativi, ha pregiudicato troppo spesso l'ingegnosa tecnica dei registi successivi, in una sorta di legge darwiniana impostata sulla pigrizia. E non a caso Truffaut definisce questa capacità, appannaggio di cineasti che avevano iniziato prima dell'avvento del sonoro, come "il segreto perduto".
Come non essere d'accordo su Vertigo? Tra i film più citati di sempre, su cui Hitchcock si esprime con battute fantastiche: si tratta di "sesso psicologico", una "forma di necrofilia" o che, rispetto alla scena in cui Judy torna dopo il parrucchiere ma senza l'acconciatura coi capelli raccolti alla Madeleine, dice "è quasi nuda ma non si toglie le mutandine"! Ed è così che l'uscita dal bagno diventa conseguentemente la consumazione di quel rapporto sessuale psicologico, che James Gray commenta come "il più grande momento della storia del cinema" e, a mio avviso, il più rilevante momento dedicato al 'doppio', nel film sul 'doppio' per antonomasia, con l'ombra di Judy-Madeleine proiettata da un corpo che appartiene più al mondo dell'apparizione che all'immanenza. Vertigo, inoltre, offre la possibilità di approfondire il potere delle immagini con il parallelo - grazie ad un eccezionale occhio storico-artistico-investigativo che avrebbe fatto impazzire Aby Warburgh, dandogli conferma che "il buon Dio è nei dettagli nascosto" - tra il ricciolo di Madeleine e quello del ritratto che sta osservando in un museo, mentre Scottie guarda e nota entrambi.
A contribuire all'omaggio, oltre alle parole di Hitchcock e Truffaut e alle immagini dei film, il coinvolgimento di diversi cineasti o critici che si esprimono sul libro e su quanto sia stato importante per la loro carriera. David Fincher lo conosce a memoria; Wes Anderson lo ha squinternato a forza di leggerlo; e poi James Gray, Paul Schrader, Olivier Assayas, Kiyoshi Kurosawa, Richard Linklater, nonché, ovviamente, Martin Scorsese e Peter Bogdanovich, forse i due maggiori storici del cinema tra i registi in attività.
L'edizione italiana del "libro" (1985) |
Ripercorriamo le tappe di quell'eccezionale incontro: nel 1962 François Truffaut scrive a Hitchcock dopo l'uscita de Gli Uccelli , il 40° film del regista inglese, il quale accetta un'intervista che durerà otto giorni. I due e l'interprete Helen Scott nell'estate dello stesso anno si vedono negli uffici della Universal, la storica major che tiene sotto contratto il maestro del brivido, e registrano la lunghissima conversazione da cui scaturisce il libro e che il fotografo Philippe Halsman immortala con alcuni celebri scatti.
Kent Jones sottolinea i diversi mondi da cui venivano i due registi che, al momento del loro incontro, avevano l'uno il doppio dell'età dell'altro, rispettivamente 62 e 31 anni. Hitchcock aveva iniziato come ingegnere, era poi passato alla pubblicità (un'attività che gli permise di essere protagonista come nessun altro cineasta nella promozione dei suoi maggiori film) e quindi a scrivere sceneggiature e alla produzione, fino alle prime regie con i lungometraggi Il labirinto delle passioni (The Pleasure Garden, 1925) e Il pensionante (The lodger, 1927), l'inizio della collaborazione con Alma Reville che diverrà sua moglie e gli sarà sempre a fianco, e poi il suo periodo americano, cominciato a partire dal 1940 e che durò il resto della sua vita. Truffaut aveva iniziato negli anni '50 nei Cahiers du Cinema diretti da André Bazin e con una generazione di critici e registi che cambiarono la storia del cinema francese e non solo, da Godard a Rohmer, da Chabrol a Rivette. Con alcuni di loro aveva già partecipato ad un'intervista a Hitchcock, quella che portò al libro di Rohmer e Chabrol del 1957, dopodiché aveva iniziato anche lui la carriera di regista, realizzando capolavori come I quattrocento colpi (1959) e Jules et Jim (1962).
Ed è proprio la "politica degli autori", concepita in quel contesto, quella che fa affermare allo stesso Bazin che "il peggior film di Hitchcock è più interessante del migliore di Delannoy", alla base del libro-intervista di Truffaut, finalizzato e strutturato come una chiacchierata sull'intera carriera di Hitchcock, analizzando alcuni aspetti di tutti i suoi film.
Eppure i due mondi così distanti di Hitchcock e Truffaut hanno una strana analogia, di tipo psicanalitico: entrambi furono costretti da bambini a passare una notte in galera come punizione inflitta dai padri. Sul primo, a suo stesso dire, questa esperienza ha generato per sempre il terrore per la polizia e per la colpevolezza, uno dei temi principali della sua cinematografia, spesso declinato in trasferimento di colpa (si pensi soprattutto a Il ladro, 1959); sul secondo non ebbe lo stesso impatto, ma quel dettaglio biografico fu comunque riportato ne I quattrocento colpi.
Dalle pagine di quel fantastico libro si apprende tantissimo e leggerlo attentamente trasforma la visione di qualsiasi film in un'esperienza analitica ed estetica allo stesso tempo.
Hitchcock sciorina massime passate alla storia che dimostrano tutto il suo rigore: "la verosimiglianza fine a se stessa non mi interessa", "la logica è noiosa", "tutti gli attori sono bestiame".
Truffaut, con le sue domande, stimola vere e proprie lezioni di teoria e tecnica del cinema: dalla capacità di giocare con il tempo, che viene dilatato e ristretto a seconda della necessità narrativa, alla preferenza di adattamenti da libri mediocri e di poco successo, su cui intervenire a proprio piacimento; dal controllo quasi spasmodico di ogni aspetto, la messa in scena, la direzione degli attori, che non devono mai prendere iniziative proprie e recitare in deroga a quanto stabilito, gli storyboard e tutto il resto, alla sfida col pubblico, obiettivo principale del regista.
John Ford, Frank Capra, Howard Hawks erano registi molto attenti al pubblico in quegli anni, ma mai nessuno lo è stato come Alfred Hitchcock, per il quale "se il film è fatto bene il pubblico giapponese dovrebbe urlare nello stesso momento in cui urla quello indiano".
In tal senso un discorso a parte merita l'indimenticabile spiegazione sulla differenza tra suspense ed effetto sorpresa, in cui Hitchcock rivela di essere interessato solo alla prima, perché agisce sullo spettatore molto più in profondità della seconda: far esplodere improvvisamente una bomba è una sorpresa, fa sussultare per un attimo sulla poltrona, mentre far vedere la bomba, che potrebbe esplodere da un momento all'altro, e prolungare il viaggio dell'autobus su cui essa è, rendendo lo spettatore consapevole, complice ma impotente nell'arrestare quel processo, è la suspense hitchcockiana! Ma non sempre la suspense è legata alla paura, come dimostra una scena tratta da uno dei film muti di Hitch, Virtù facile (Easy virtue, 1928), in cui narra la decisione di una ragazza di acconsentire o meno alla proposta di nozze del fidanzato inquadrando la sola centralinista che attende con ansia la telefonata, mettendo ancora una volta a disposizione dello spettatore tutti gli elementi e facendolo soffrire nell'attesa insieme al personaggio.
E così tutti gli altri artifici sono utilizzati da Hitchcock per vincere la continua battaglia con lo spettatore: dal mitico bicchiere di latte con la lampadina all'interno de Il sospetto (1941) alla chiave di Notorious (1940), dal pavimento in vetro de Il pensionante (1927) ai trasparenti e così via, fino alle diverse sequenze in cui la mdp è nel punto più inaspettato, come le tante volte in cui l'inquadratura dall'alto ha qualcosa del punto di vista di Dio, per dirla con De André, con una valenza religiosa tante volte citata rispetto al cinema di Hitchcock (e si pensi ad esempio alla preghiera di Henry Fonda ne Il ladro). Jones, per questo, fa giustamente vedere la bellissima immagine de Gli Uccelli con l'incendio della pompa di benzina a Bodega Bay o il momento dell'uccisione del personaggio di Martin Balsam in Psycho.
Il bicchiere di latte "illuminato" de Il sospetto (1941) |
Il pavimento di vetro de Il pensionante (The lodger, 1927) |
La madre di Antoine ne I quattrocento colpi (1959) |
Due film su tutti sono stati scelti da Kent Jones, quello che per molti, sottoscritto compreso, è il più bello della sua carriera, La donna che visse due volte (Vertigo 1958), e quello che ebbe più successo, Psycho (1960).
Sul film sono decisamente rilevanti le testimonianze di Scorsese e Schrader che evidenziano un problema quasi impensabile ai giorni nostri: quanto i registi degli anni '70 cercassero continuamente una copia di quella pellicola e quanto fosse difficile trovarne una, anche perché a causa del sostanziale insuccesso ne esistevano molto poche. Un dettaglio quest'ultimo, che permette a David Fincher una preziosa riflessione su come sia assurdo che il gradimento o meno di un film fosse determinato dai pochi mesi di uscita al cinema, tanto più per un'opera come Vertigo, che nel corso degli anni è diventata sempre più importante e apprezzata.
E poi Psycho, che invece è l'esempio opposto: un film dal budget ridotto, che ha avuto un successo incredibile, nonostante un "soggetto orribile" e "personaggi insignificanti" a detta dello stesso regista. Cosicché la sua fortuna va ricercata ancora nella perfetta costruzione, con l'ennesimo inganno-depistaggio hitchcockiano nei confronti degli spettatori, ottenuto facendo morire la protagonista Marion (Janet Leigh) all'inizio del film - "la gente non ci credeva", dice Bogdanovich -, girando la scena della doccia, forse la sequenza più famosa di tutto il suo cinema.
Dall'occhio che spia di Norman Bates (Anthony Perkins) - e viene in mente che nello stesso anno Michael Powell girava L'occhio che uccide, o che Sergio Leone ne ha dato forse la più bella interpretazione in chiave malinconico-romantica con Noodles che spia Deborah in C'era una volta in America - all'inquadratura asimmetrica nella doccia, fino alle coltellate, al vortice dell'acqua e all'eccezionale close up splendido e terribile sull'occhio di Marion senza vita.
Dall'occhio che spia di Norman Bates (Anthony Perkins) - e viene in mente che nello stesso anno Michael Powell girava L'occhio che uccide, o che Sergio Leone ne ha dato forse la più bella interpretazione in chiave malinconico-romantica con Noodles che spia Deborah in C'era una volta in America - all'inquadratura asimmetrica nella doccia, fino alle coltellate, al vortice dell'acqua e all'eccezionale close up splendido e terribile sull'occhio di Marion senza vita.
Su questa scena è preziosa la testimonianza di Peter Bogdanovich, che racconta le reazioni della sala alla prima visione di quello storico momento, in cui la tensione era così alta che determinò una serie di lunghe urla durate per tutto il tempo dell'assassinio... "per la prima volta si pensò che andare al cinema fosse pericoloso".
Nel documentario c'è spazio anche per gli anni successivi vissuti dai due dopo quell'amicizia iniziata con l'intervista, anni in cui peraltro il regista francese aggiornò il libro aggiungendo gli ultimi film del collega britannico. Troppo pochi in realtà, poiché la morte di Hitchcock giunse nel 1980 e quella di Truffaut, incredibilmente, solo quattro anni dopo. Ci fu ancora il tempo, per fortuna, per un incontro ufficiale tra i due, quello dell'onorificenza tributata a Hitchcock dalla regina d'Inghilterra, che lo nominò Sir il 3 gennaio 1980, in una cerimonia che si svolse alla Universal City e durante la quale Truffaut pronunciò una frase rimasta nella storia del cinema: "voi americani lo chiamate Hitch, noi in Francia lo chiamiamo monsieur Hitchcòck", con quel rigoroso accento francese, che dà un tocco di esotico all'artista che scriveva con la cinepresa!
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