"So come si fa un film di successo, dopo 40 anni di lavoro sarei un imbecille se non lo sapessi. È che non li voglio fare, voglio fare film di ricerca, che è un'altra cosa".
È forse questa la frase che sintetizza meglio il pensiero di Roberto Rossellini, sulla cui figura questo documentario di Ilaria de Laurentiis, Raffaele Brunetti e Andrea Paolo Massara ha il merito di farci tornare e rfilettere con un malinconico quanto piacevole tuffo nel passato.
Sul finire del 1956, il grande regista romano è in piena crisi: gli anni del trionfo del Neorealismo sono ormai passati, ma tutti lo celebrano ancora per quello, e i suoi film con Ingrid Bergman, anche quelli che consideriamo capolavori (Stromboli, 1950; Europa '51, 1951; Viaggio in Italia, 1954), sono stati un fallimento di critica e di pubblico.
Anche la relazione con l'attrice svedese - nata dopo la celeberrima lettera del 1948 con cui Ingrid si autocandidava per lavorare con lui, dopo aver visto Roma città aperta e Paisà con la dichiarata volontà di chiudere il suo precedente matrimonio -, è ormai alla fine e l'intolleranza reciproca è sempre più evidente. Roberto la considera una sua proprietà, Ingrid Bergman vuole riprendere a lavorare anche con altri registi, tornare a Hollywood, il denaro a disposizione è poco, l'amore non basta più a sorreggere il matrimonio.
Stanco del bisogno di apparenza del mondo del cinema e schiacciato da un passato glorioso che però in quanto tale non gli interessa più, Rossellini accetta l'invito del primo ministro indiano Nehru, successore di Gandhi, sul quale pesa la responsabilità della recente libertà conquistata dal suo paese, per girare un documentario che racconti la bellezza, il fascino e la cultura dell'India.
Lì inizierà la relazione con Sonali Dasgupta, la ventiseienne sceneggiatrice e moglie del regista Haridashan Dasgupta, creando uno scandalo che bloccherà la lavorazione del film, poi completato - per alcuni paradossalmente - proprio dall'intervento diplomatico di Ingrid Bergman a Londra, con Nehru.
E sarà poco dopo l'esperienza in India che Rossellini, dopo aver trovato "rifugio" con Sonali da Henri Cartier Bresson a Parigi, tornerà a girare per bisogno economico un film di grande successo con Vittorio De Sica protagonista, vincitore al Festival di Venezia, Il generale Della Rovere (1959), a cui fa riferimento la frase con cui ho aperto questa analisi.
A raccontare la storia, le voci di Sergio Castellitto, da cui sentiamo le parole di Roberto Rossellini; di Kasia Smutniak, a cui spettano quelle di Ingrid Bergman; Vinicio Marchioni che dà la voce al direttore della fotografia Aldo Tonti, che fu con lui in India. Nel corso del film ascoltiamo anche i pensieri di Isabella Rossellini, di Tinto Brass, che collaborò col regista al montaggio di India - Matri Bhumi (1958); di Jean Herman, scrittore e regista che fu suo aiuto per il film indiano, su consiglio di François Truffaut, che a sua volta considerava Rossellini uno dei suoi ideali maestri; Beppe Cino, che fu suo allievo al Centro Sperimentale di Cinecittà; Silvia D'Amico Bendicò, la sua terza e giovane moglie, figlia della grande Suso Cecchi D'Amico e sceneggiatrice lei stessa per Il Messia (1975).
Il documentario arriverà fino alla morte di Rossellini, sopraggiunta il 3 giugno 1977, nello stesso anno in cui, da presidente della giuria a Cannes, contribuì in maniera decisiva a far vincere Padre padrone dei fratelli Taviani, tra i fischi e le polemiche, dato che il film era stato concepito per la televisione.
Dal 1956 al 1977 ci sono i vent'anni dell'attività meno nota del cineasta, che ci tiene a non essere definito tale, poiché ribadisce in maniera puntuale "io non sono un cineasta, il mio è il mestiere di uomo".
In quegli anni ci sono anche quelli dell'adesione alla tv, quando Ettore Bernabei, direttore generale dal 1961 al 1974, tentò di reclutare i più grandi registi italiani per portare in televisione grandi opere filmiche da far uscire direttamente sul piccolo schermo. Nessuno rinunciò al cinema, se non Rossellini, che ci vide una possibilità di sperimentare e di essere libero: un sogno che durò poco e lo fece scontrare con le "idee puerili" dei funzionari RAI, che stigmatizza in una fantastica lettera indirizzata proprio a Bernabei, che dice molto della sua personalità.
La sua idea di televisione non era poi lontana da quella che aveva avuto per il cinema, con l'obiettivo di raggiungere più persone possibili con finalità di utilità sociale. Sono gli anni dei film storici (La presa di potere di Luigi XIV, 1966; Agostino d'Ippona, 1972; L'età di Cosimo de' Medici, 1973), dei documentari, delle serie didattiche (es. L'età del ferro, 1964; La lotta dell'uomo per la sua sopravvivenza), delle interviste (Intervista a Salvador Allende: La forza e la ragione, 1971). La pubblicità arrivò a cambiare tutto molto presto e a trasformare la televisione in quello che è poi diventata inesorabilmente la tv commerciale, nulla di più lontano da Rossellini, ciclotimico, perennemente in ansia produttiva, che dormiva poco e aveva bisogno di studiare tanto la materia dei suoi film per poi abbandonarsi "in una libertà totale". Tutto ciò che non andava bene né per la nuova televisione, né era mai andato bene per Hollywood, ovviamente, con cui non era mai sbocciato l'amore, a causa del totale controllo sulle opere voluto dalle major statunitensi.
Un uomo straordinario, dalle idee chiare, curioso di tutto, affascinato da tutto, sempre lucido nel fare ciò che più desiderava, pienamente incapace di scendere a compromessi, per un "fatto fisico, non etico".
La sua consapevolezza era così straordinaria, soprattutto ascoltata oggi, che gli permetteva di affermare che se un film costa meno, ci sono meno interessi e quindi più libertà d'azione.
E per un uomo come lui, la possibilità di lavorare con piacere era tutta qui. Un maestro assoluto, in tutti i sensi.

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